La Sardegna che ripensa il suo sviluppo ha diritto a riappropriarsi della risorsa territorio. Si tratta di negoziare un nuovo accordo sul complesso delle servitù, con obiettivi chiari e trasparenti. È indispensabile impostare questo confronto, su un terreno di pari dignità, per coniugare al meglio gli interessi della sicurezza e della difesa nazionale con le esigenze di crescita dell’economia sarda.
L’Unione Sarda, 10/10/2004
La protesta dei pescatori che a Capo Teulada hanno bloccato le esercitazioni delle navi della Nato riporta all’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico la questione delle servitù militari che vincolano un gran parte del territorio della nostra isola.
Dopo cinque anni di inazione delle giunte che hanno governato la Regione occorre riprendere a ragionare con rigore e serietà sui problemi che gli insediamenti militari scaricano sulle comunità interessate e sulle conseguenze per il loro sviluppo.
Credo che la questione vada affrontata rifuggendo da ideologismi o strumentalizzazioni fuorvianti e partendo proprio dall’analisi delle caratteristiche che assume la presenza militare in Sardegna, contrassegnata da accentuati caratteri di contraddittorietà: è fonte talora insostituibile di occupazione e reddito ed al contempo una limitazione per un uso del territorio che sia funzionale alle esigenze di sviluppo delle comunità interessate.
I tre livelli di servitù militare vincolano oltre ventimila ettari di territorio ma ben duecentomila sono gli ettari direttamente o indirettamente interdetti alle popolazioni. Questo ordine di grandezza, rende ragione dello straordinario contributo che i sardi pagano all’interesse nazionale: superiore a quello dei cittadini delle altre regioni.
Immensi spazi, destinati all’area sperimentale e formativo-addestrativa delle tre armi, sono occupati o interdetti ai civili con una presenza per converso quantitativamente ridotta di uomini e mezzi.
La Sardegna che ripensa il suo sviluppo non può consentire che la risorsa territorio sia sottoposta ad un uso “estensivo” che lo deprezza e ne limita le opportunità di crescita.
Ben diversamente la presenza “intensiva”degli insediamenti militari ha garantito, per esempio nel nord est, flussi significativi di risorse ed è stata di aiuto allo sviluppo di quei territori.
Si tratta di negoziare un nuovo accordo sul complesso delle servitù, con obiettivi chiari e trasparenti: non solo in ordine alla riduzione dei vincoli ma anche agli aspetti connessi all’indennizzo monetario e alle commesse per i beni di utilizzo delle forze armate. È indispensabile impostare questo confronto, su un terreno di pari dignità, per coniugare al meglio gli interessi della sicurezza e della difesa nazionale con il diritto al futuro dei sardi.
Abbiamo scelto di scommettere sul nostro sviluppo, di partecipare alla competizione dell’economia globale puntando sulla nostra principale risorsa: il territorio, le qualità dell’ambiente. Non può esistere alcuna intesa che prescinda da questo dato.
Dalla conferenza regionale sui demani e servitù militari svoltasi nel dicembre 1995 a Teulada che portò a confrontarsi attorno allo stesso tavolo i comuni sottoposti ai vincoli, la Regione e lo Stato emersero indicazioni di merito e di metodo che sono state come rimosse e ignorate dai governi che si sono succeduti alla guida della Regione.
Spetta a noi, alla nuova maggioranza che ha la responsabilità di governo riprendere il filo interrotto di un confronto Stato-Regione sulle servitù militari che corrisponda agli interessi dei sardi. Ai quali lo Stato può e deve chiedere, in nome dell’interesse nazionale di contribuire a mantenere in piedi il sistema di difesa, esattamente come gli altri cittadini italiani.
Un discorso a parte merita la Base di Santo Stefano.
Esiste un problema di sicurezza che ha dimensioni drammatiche e che non può essere confuso con alcun altra questione e non può essere più ignorato.
Non è tollerabile che nelle acque dell’Arcipelago, parco naturale di interesse nazionale di un Paese che ha scelto di rinunciare alla produzione di energia nucleare, siano ospitate armi nucleari.
Vanno e vengono nelle nostre acque reattori privi dei sistemi di sicurezza adeguati a fronteggiare le emergenze legate a fughe radioattive. Viviamo in condizioni di incosciente tranquillità il rischio terribile della catastrofe. In questo caso il problema va risolto alla radice: quella base deve essere chiusa.
I sardi conoscono i loro doveri nei confronti della comunità nazionale e hanno, nella loro storia, dato prova di saperli onorare; ma chiedono oggi, con più matura consapevolezza, che la Repubblica, come recita “ancora” la Costituzione, riconosca i loro diritti.