Molti capipopolo, pochi riformisti

La Nuova Sardegna, 29/05/1992

 

Il frenetico susseguirsi di avvenimenti collegati alle indagini della Magistratura di Milano, il forte sentimento di reazione morale eccitato dagli stessi, la spettacolarità delle discussioni in corso nel Paese sono, nel loro intrecciarsi, una spinta ineludibile per una riflessione tanto rigorosa quanto esigente da parte di tutti quelli che hanno responsabilità pubbliche.
Lo sconcerto e, insieme, il desiderio di non omologarsi nel giudizio della gente a quella categoria di “politici degradati” spinge più frequentemente ad accodarsi al coro di denuncia piuttosto che all’umile contributo per rintracciare quel filo sottile che ancora può legare i cittadini alle istituzioni in un nesso di fiducia.
Abbiamo registrato denunce forti e sincere che pongono interrogativi laceranti per la coscienza di tutti gli uomini onesti.
Appare difficilmente contestabile l’assunto per cui l’insularità non preserva la politica sarda dalla degenerazione morale e dalla contiguità tra politica e affari. E occorrerà trovare il modo per rimuovere insieme ai disonesti anche le oggettive condizioni che tali contiguità rendono pressoché ineluttabili.
Per noi democratici cristiani esiste un supplemento di ragioni.
L’autonomia della sfera politica non può in nessun caso ritenersi separata dai valori morali che devono ispirare il nostro impegno civile.
E va ribadito che non è accettabile quella diffusa sorta di doppia moralità secondo la quale certe cose che non sono consentite all’uomo comune lo sono quando vengono compiute in nome del partito o dell’attività politica.
Compito della politica non è quello di redimere i singoli ma quello, più modesto ma non meno impegnativo, di impedire attraverso leggi e atti di governo che i cittadini vengano indotti in tentazione.
E tuttavia non mi convincono quanti al lavoro parlamentare preferiscono le sirene del movimentismo: soprattutto quando questo non si fonda sulla oggettiva novità delle sue proposte ma sulla carica emotiva suscitata da messaggi spesso tanto semplici quanto poveri di contenuto autenticamente riformista.
Accade così che i tatticismi e le ansie maturate nella paura di non apparire moderni e diversi aumentino l’isolamento esistenziale degli onesti e dei giusti, dividano gli uomini che hanno realmente a cuore la riforma dello Stato e della società, frantumandoli in una miriade di schieramenti continuamente impegnati nell’assumere la posizione che possa apparire, anche quando non lo è, la più sconvolgente, la più avanzata e radicale, quella insomma che più di altre possa sembrare lo strumento capace di fare piazza pulita.
Noi stiamo vivendo in un clima parossistico in cui cerchiamo un uomo politico con capacità salvifiche e giochiamo a chi riesce a trovare la formula, l’ideale o l’opzione politica capace di soddisfare l’esigenza di giustizia che viene dalle piazze.
E intanto diviene sempre più difficile trovare un deputato o un consigliere regionale capace di trascorrere ore per predisporre nor¬mative di carattere generale e non leggine che tutelino interessi di parte.
E sempre più difficile trovare un funzionario che sappia fare il suo lavoro e non trascorra il suo tempo in conferenze e dibattiti o non sia “oppresso” dalle innumerevoli consulenze.
E’ sempre più difficile trovare uomini che studino e non orecchino.
E mentre le masse si cibano delle azioni annunciate e non realizzate, delle immagini effimere e transeunti, ma affascinanti ed emotive, e non delle cose vere e sempre più rare, mentre il concetto commerciale di intermediazione è assurto a paradigma e regola dei rapporti umani e politici e stabilisce prezzi e costi anche dell’amicizia, mentre accade tutto questo, tutti scoprono la vocazione del censore, del capopopolo, tutti sono alla ricerca di un microfono attraverso cui annunciare la loro strenua coerenza, per poi non aggiornarsi, per poi non studiare le leggi e le proposte di legge, per poi non fare molto nelle Assemblee legislative, per poi patteggiare a porte chiuse, per poi dimenticarsi dei propri ruoli, per poi ostacolare i veri processi riformisti perché non se ne ha la paternità.
Pensando a Giovanni Falcone, alla drammatica coerenza della sua vita, al di là del rito dovremmo tutti cogliere una lezione tanto semplice quanto rivoluzionaria. Assumere fino in fondo la responsabilità del ruolo che abbiamo, con il massimo di professionalità e di determinazione, di efficienza di onestà, di fedeltà ai valori del nostro ordinamento.
E il nostro dovere principale è legiferare con competenza e giustizia.
E allora facciamolo, usciamo dalle eterne discussioni di premessa, e se sarà necessario dividiamoci sui problemi e sui principi, ma non riduciamo il Consiglio regionale ad un’Accademia degli auspici e dei desideri che tanto colpiscono l’immaginario collettivo e niente cambiano.
Onoriamo la memoria di Falcone con quella onestà fattiva, competente e determinata di cui lui è stato cristallino interprete. Facciamo la parte che ci compete.
Assumiamo la nostra responsabilità nella storia.
Facciamo entrare con maggiore evidenza nelle istituzioni la verità e trasparenza delle nostre persone, la determinazione del nostro impegno, e certamente verrà meno la sensazione che talvolta si offre di saper decidere su tutto ciò che non è rilevante aspettando che il tempo, fatte fatalmente le sue vittime, ci consenta di rispondere ai problemi veri del nostro sistema, senza responsabilità e costi personali.

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