Il mito del popolo guerriero

Il mito del popolo guerriero
Intervista a cura di Francesco Mariani, Radio Barbagia, 11/11/1988

 

Il malessere e la violenza nelle zone interne è tema dibattuto e dramma quotidianamente vissuto. I fatti di questi giorni hanno allargato una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. E un po’ tutti torniamo ad interrogarci su un modo di vivere che è dinanzi a noi e che amiamo ed odiamo nel contempo. Lo scempio ed il mercato che si fa della vita umana non può lasciarci tranquilli. Dobbiamo capirne il perché, affrontarne le cause, per preparare un futuro diverso per noi e per i nostri figli.

Esiste un rapporto tra la violenza e le condizioni precarie della nostra economia?
Tra gli addetti ai lavori, soprattutto nell’amministrazione della giustizia, c’è la tendenza, ogni volta che si discute di violenza, a spostare i termini della questione nel campo del malessere sociale. Contemporaneamente, la gente comune pone invece l’accento sul momento repressivo, sull’esigenza di maggiore giustizia. Possono sembrare due posizioni antitetiche ma forse non è così. Entrambi gli approcci servono a far luce su un fenomeno così complesso che è quello della violenza nelle zone a prevalente economia pastorale.
Negli anni recenti è caduto in desuetudine ricordare che la pastorizia è la forma prevalente della organizzazione produttiva delle zone interne. Ciò ha comportato un’assimilazione semplicistica, nella programmazione di tipo economico, delle zone pastorali del nuorese con quelle del resto della Sardegna. Si è persa la loro specificità. Tutto questo oltretutto va contro i risultati acquisiti tramite la commissione parlamentare Medici, che resta, per molti versi, un punto di riferimento ineliminabile, li nesso tra violenza e condizioni economiche è indiscindibile. Ma è un nesso dove cause ed effetti si inseguono.
La violenza certamente non è fenomeno estraneo al tipo di rapporti di produzione e concezione della vita così come storicamente si è radicata nel mondo pastorale. Se e condizioni economiche influenzano la tipologia della violenza è vero anche che il modo di produzione pastorale è pesantemente condizionato dal tasso di violenza che si registra nelle nostre zone. Vorrei dire, insomma, che il rapporto tra violenza e sottosviluppo economico è dialettico e non statico. E’ questione culturale e sociale: isolare i due termini della questione per affrontarli separatamente è fuorviante.

Antonio Pigliaru ha acutamente illustrato un codice della vendetta barbaricina. Tale codice esiste ancora? E’ ancora una chiave di lettura per quello che sta accadendo?
Tutto quello che viene tradotto in norma e codificato esprime un determinato momento storico, determinati modi di intendere e di volere un tipo di convivenza sociale. Non dobbiamo pensare agli studi di Pigliaru come a qualcosa di cristallizzato nel tempo, come se in questi anni niente di nuovo sia accaduto. Il codice della vendetta barbaricina va visto nella dinamica e nel divenire storico della nostra organizzazione sociale. Pensare che nei paesi della nostra zona niente si sia verificato negli ultimi decenni è assai sbagliato. E cambiato il microcosmo dei nostri paesi. Viviamo in tempi in cui si registra una forte omologazione culturale. Il codice barbaricino era senza dubbio cultura dominante ai tempi di Pigliaru. Permeava di sé non solo il mondo pastorale ma anche altri segmenti della società. Oggi questa totale dominanza è difficile da sostenere. Se il codice barbaricino, o meglio la sua cultura, la sua filosofia, è determinante per capire i comportamenti degli strati adulti della popolazione non lo è in eguale misura per quelli più giovani. Non dobbiamo ignorare che i ventenni e i trentenni hanno storie socialmente diverse, condizionamenti nuovi, rispetto a quanto è stato messo in luce dagli studi di Pigliaru.
Regole che sembravano infrangibili sono state infrante. Tutto questo senza voler sminuire o negare l’influsso che il codice della vendetta ha ancora attualmente nei nostri paesi. Spesso le innovazioni tecniche sono assoggettate dentro logiche che sono antiche.
C’è ancora uno scontro in atto tra un codice non scritto e le leggi dello Stato. Un conflitto che genera spesso una sorta di anomia, una condizione dove nessuna regola è prevalente, una assenza di regole del gioco. E’ facile in questo clima prendere per strutturali dei cambiamenti che sono solo apparenti, e viceversa.

Mi sembra di capire che il codice barbaricino ha dunque una sua rilevanza, senza per questo volerlo mitizzare.
L’importanza e la permanenza di quella cultura o “filosofia” è fuori discussione. Lo è soprattutto se pensiamo ai reati tipici delle zone interne che restano l’omicidio per vendetta, il sequestro di persona, l’abigeato e lo sgarrettamento o l’uccisione del bestiame. Tutti questi reati hanno avuto storicamente un andamento ciclico. A periodi di calma apparente si sono susseguiti delle vere e proprie esplosioni delinquenziali di questo tipo. Un fenomeno che dovrebbe sconsigliarci dall’abbassare la guardia.

Parli spesso di cultura o “filosofia” del codice barbaricino. A cosa ti riferisci?
Alla logica che vuole regolare i rapporti personali e sociali con la forza. Il mito del popolo guerriero è duro a morire. Questa logica talvolta è rintracciabile anche in campo politico. Ieri come oggi in troppi ripongono la credibilità delle loro ragioni nelle prove di forza.

Viviamo ancora, per dirla con parole semplici, tra gente che più che alla forza della ragione si affida a quella dei muscoli. Gente che combina la ragione con Io strumento della violenza per affermarsi. E le novità, accennate precedentemente in cosa consistono?
In questi anni sono venuti meno alcuni ammortizzatori sociali. Prendiamo l’esempio della famiglia. Non c’è dubbio che questa istituzione ha perpetuato la “filosofia” del codice barbaricino. Ma ha anche svolto una funzione di mediazione all’interno dei conflitti sociali. Oggi nei nostri paesi manca un momento di mediazione: la famiglia s’ereu, sono istituzioni spesso in crisi. Manca anche la mediazione dei famosi homines de mesu, dei personaggi da tutti conosciuti ed accettati per la loro saggezza.
Nei periodi di transizione le cose si complicano proprio perché mancano questi luoghi di aggregazione sociale. Nei nostri paesi spesso l’unico luogo di incontro rimane la bettola.
Ma la famiglia tradizionale era omogenea ad un certo tipo di banditismo. Gli studiosi dicono che i ribelli, i banditi, i briganti, sono espressione di tendenze interne alla società.
Il banditismo sociale, i ribelli di cui parlano molti studiosi della società, non so fino a che punto si possano conciliare con lo spiccato individualismo barbaricino. Fermo restando che le condizioni e le motivazioni sociali si intravvedono anche dietro scelte e comportamenti apparentemente individualistici.

Parlando della famiglia non si può eludere il tema della donna.
Tale tema è già stato messo in luce da più parti e ne abbiamo avuto riscontro nelle audizioni della commissione. Non vorrei ripetere luoghi comuni. La donna ha sempre avuto, nei nostri paesi, un ruolo determinante nel conservare le regole e i modelli del comportamento sociale.
lo vorrei tare qualche osservazione sul ruolo del padre. Un tempo era modello e maestro. Michelangelo Pira nel suo libro “La rivolta dell’oggetto” ha dedicato pagine mirabili a questo ruolo e a questa figura. Il modello del padre-pastore era dominante nella cultura paesana. Oggi questo modello non esprime più lo stesso fascino. In molti casi non è più, come una volta, guida e maestro. Soprattutto a livello giovanile la figura del padre è profondamente mutata.

C’è un rapporto tra questo fenomeno e la delinquenza giovanile?
Una cosa che colpisce è proprio la violenza giovanile, solo in parte riconducibile al codice della vendetta barbaricina. Gli atti di teppismo, le azioni vandaliche, le microviolenze che si registrano in molti paesi, sono fenomeni non riconducibili alle categorie ed analisi tradizionali. Esprimono nuovi disagi, recenti conflittualità, meccanismi dei nostri giorni. Sono sintomo di un disagio sociale e spesso di una protesta contro di esso. Una malintesa ricerca di un’identità non ancora trovata e talvolta negata. Giovani che non sono pastori e che sono cresciuti senza il fascino del padre-pastore. I reati tipici delle zone interne restano quelli che abbiamo detto. A livello giovanile c’è comunque un nuovo malessere, per molti versi sconosciuto alle vecchie generazioni.

Puoi precisare meglio?
I giovani sono la fascia più esposta alla omologazione dei nostri giorni. La loro violenza è spesso gratuita, immotivata, improvvisa. La famiglia non è più in questi casi luogo dove matura una vendetta. Tuttalpiù interviene in un secondo momento per proteggere e giustificare, ma non ha una funzione programmatoria.
Questo tipo di violenza è destinato ad incancrenirsi nei prossimi anni se non si interviene per tempo. Le stesse istituzioni sono entrate nel mirino di una serie di attentati dove giocano fattori diversissimi, ma ai quali non è estraneo il malessere giovanile.

Tornando alla domanda iniziale: tutta questa violenza non impedisce lo sviluppo economico?
Sicuramente ma non è giusto individuare questa come unica causa, minimizzando il permanere di tutti i vecchi vincoli che strozzano lo sviluppo, rendendo svantaggiosi gli investimenti in Sardegna e ancor più nelle zone interne. Mancano le infrastrutture, i servizi all’impresa, una rete viaria interna agevole; i collegamenti interni ed esterni sono penalizzati. Difetta soprattutto la cultura dell’impresa. Per converso non è giustificata neppure la vecchia equazione povertà = criminalità. Esistono nella nostra isola paesi dove la povertà è più diffusa e non esiste il fenomeno. Da noi esiste un vissuto più drammatico della condizione di malessere economico che viene tradotto in atteggiamento conflittuale esasperato. D’altra parte il richiamo all’economia agro-pastorale, come elemento di identificazione territoriale non vuoi dire che i pastori sono delinquenti, ma significa richiamare storicamente il processo di formazione di questa cultura.

Che fare infine?
Non ci dobbiamo rassegnare.
La complessità delle ragioni storiche, culturali, di contesto economico e ambientale che sottendono alla terribile condizione del malessere, ha bisogno di un’azione forte, corale di riforma e di cambiamento.
La diffidenza atavica nei confronti dello Stato può essere vinta affermando una presenza delle istituzioni capace di far guadagnare alle stesse consenso e fiducia.
E quindi prima di tutto un buon funzionamento della pubblica amministrazione. Di quella giudiziaria: assicurando risposte certe e puntuali in una terra che ha vivissimo il senso della giustizia.
Della pubblica sicurezza, che ancora deve tradurre in moduli organizzativi adeguati le indicazioni della Commissione Medici.
E ancora della scuola, dei Comuni, della Regione e degli organi periferici dello Stato. Occorre riprendere il cammino della trasformazione economica avviato negli anni settanta: introducendo, insieme alle nuove occasioni di lavoro e di produzione, modelli di comportamento e valori di riferimento che sostituiscono al mito della balentia, della forza e della prepotenza, il primato della competenza, il rispetto della persona, il valore della comunicazione, la coscienza della pace.
Ma non riusciremo a esorcizzare il demone della violenza se non saremo capaci di assumere per intero le nostre responsabilità individuali.

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