I limiti degli “ex”

Europa, 22/09/2010

 

Ieri sera non ho partecipato alla riunione degli”ex popolari”.

Penso che le categorie della politica declinate al passato non dovrebbero avere cittadinanza in un partito nato con la vocazione di offrire risposte persuasive alle domande del 21° secolo, di essere un riferimento affidabile per le nuove generazioni,il principale partito per il futuro dell’Italia.

E invece in questi anni molti si sono prodigati per organizzare la vita del partito nuovo usando le ragioni dei partiti vecchi.

Gli ex popolari, con la pretesa di rappresentare la cultura dei cattolici democratici, hanno finito col promuovere un ritorno prepotente delle idee, del linguaggio e dell’organizzazione del vecchio partito postcomunista.

Forse sarebbe accaduto ugualmente.

In questo processo causa ed effetto si inseguono oggi in una forma circolare e nessuno sembra avere voglia di riconoscere un qualche errore. Nelle condizioni attuali è difficile trovare un punto di caduta che non sia una nuova diaspora: d’altra parte i sondaggi registrano una fuga crescente dei nostri elettori verso il campo vasto dell’astensionismo tre mesi fa in Sardegna sono andati ai seggi tre elettori su dieci e la cosa non ha suscitato alcun allarme!).

L’organizzazione per componenti di ex nel caso dei popolari si trascina un limite in più,un limite sostanziale. Il popolarismo come cultura non è mai stato, negli ultimi dieci anni, un elemento riconoscibile delle politiche della Margherita prima e del PD dopo.

E’ difficile ricordare una battaglia parlamentare,una forte iniziativa politica in cui fossero chiaramente riconoscibili le tracce di una decisa appartenenza alla tradizione culturale del cattolicesimo democratico. Non so se questo è avvenuto per scelta o per debolezza.

D’altra parte non abbiamo costruito il PD con la consapevolezza (di tutti?) che le culture sono il sovrapporsi e intrecciarsi di esperienze,idee,sogni,convenzioni,scienze che attraversano la storia? Allora ci siamo detti che l’identità di un partito non è un freddo catalogo di valori,un corpo di pietra ma un’anima che vive, si contamina, evolve.

Il popolarismo in questi anni è stato piuttosto usato come una sigla, talvolta un pretesto per giustificare divisioni o per rivendicare organigrammi. E non solo nel nostro campo,se è vero che la migliore tradizione democristiana viene rivendicata da capi e vicecapi di un arco politico che attraversa l’intero emiciclo parlamentare.

In un Paese che perde ogni giorno pezzi preziosi della sua struttura industriale,che riduce senza ostacoli il proprio tasso di coesione nazionale e paga il prezzo di una lunghissima stagione di non governo, in questo nostro Paese non viene percepita una chiara e semplice proposta alternativa del partito democratico.

In una Europa sempre più condizionata dalla destra populista e dalle paure di un declino avvertito come ineludibile la novità del partito democratico sembra essersi smarrita nella timida riproposizione di parole chiave del vecchio socialismo e nelle dispute personalistiche tanto fastidiose quanto incapaci di suscitare entusiasmo.

In queste settimane le spinte divisive sono cresciute e la minoranza congressuale ha prodotto due minoranze, rigorosamente articolate – esattamente come avviene nella maggioranza – in tre sottocomponenti, naturalmente riconducibili a tre diverse culture di provenienza,naturalmente animate da un sincero proposito di unità!

Non so se, per una imperscruttabile eterogenesi dei fini, sotto la spinta di eventi esterni come la fine del berlusconismo o una nuova stagione di conflitti sociali, il PD possa ritrovare insieme allo smalto anche una direzione di senso coerente con la scommessa originaria. So però che oggi si sono di molto consumate, per quanti a quella scommessa hanno creduto davvero,le ragioni per restare.

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