Dopo la sconfitta elettorale

Il Giornale, 19/06/1999

 

“Dopo la sconfitta elettorale, la situazione è così drammatica da rendere necessario un drastico mutamento di linea. Abbiamo perso un milione di voti. È la fine di un percorso che si è rivelato sbagliato”.

Eppure da Piazza del Gesù non sono arrivati segnali forti. Gli ulivisti protestano: perché Marini non si è dimesso come ha fatto Fini?
Non so se questa tre giorni di An sia stata un vero dibattito per superare le difficoltà o una grossa operazione mediatica. Marini ha messo a disposizione il mandato di segretario, e il partito deciderà che cosa sia meglio fare. Tutti insieme, come insieme abbiamo preso decisioni rivelatesi sbagliate. Il rischio che corriamo, concentrando l’attenzione sul nome del segretario, è di dissipare quest’occasione di confronto sereno sul terribile risultato che abbiamo avuto.

Il Ppi è finito?
È evidente che c’è una crisi profonda del Ppi e dei partiti intesi come partiti tradizionali, che hanno come ragione sociale la conservazione dell’identità e che si fondano sul ruolo dei militanti. Il voto ha messo in evidenza che questo genere di partiti, compreso il Ppi, non sono capaci di intercettare gli interessi degli italiani. Dobbiamo fare un passo in più, mettere in discussione la forma partito.

È un bel modo per dire che serve una federazione con i Democratici di Prodi?
Non solo con i Democratici, bisogna puntare ad aggregare più soggetti, anche se con gradualità e prudenza. Si può partire sperimentando le liste Margherita. Il cosiddetto disarcionamento di Prodi ha generato grandi incomprensioni in tutto il centrosinistra.
Faremmo bene a smettere di rinfacciarci gli errori e a ripartire dall’ottobre 1998. Serve un supplemento di umiltà per tutti. Anche Prodi dovrebbe cercare un rapporto meno teso con il Ppi. Undici sigle mi sembrano troppe per un solo schieramento.

D’Alema ha proposto una federazione di tutto il centrosinistra.
Mi sembra un progetto simile alla gioiosa macchina da guerra con cui la sinistra ha perso le elezioni del 1994. L’obiettivo è ritrovare la visibilità presso quell’area di moderati riformisti che ci hanno fatto vincere nel 1996, e questa non è la strada giusta. Faccio notare che, per la prima volta, la componente diessina nella maggioranza è scesa sotto il 50 per cento. In questa situazione, mire egemoniche sono inaccettabili ma soprattutto inutili. Serve uno sforzo capace di dare unità, ma anche di offrire la governabilità, insomma di far vincere.

Nel Ppi c’è chi chiede di ritirare i ministri per dare all’elettorato il segnale visibile che è finito il tempo della subalternità ai Ds. O forse potrebbero essere sostituiti?
Ritirare i ministri sarebbe una fuga dalla responsabilità in nome della spettacolarità. Non l’abbiamo fatto in campagna elettorale, dovremmo farlo adesso? Sostituire i ministri è una questione da affrontare dopo. Prima bisogna cambiare la linea politica, poi si porrà il problema delle dirigenze, tanto nel partito quanto nel governo.

Fini ha confermato di voler andare per la propria strada. Martinazzoli dice che il centro con cui bisogna fare i conti è Forza Italia. Lei che cosa ne pensa?
Berlusconi è il centro, ma del centrodestra. Questo turno elettorale ha messo in crisi molte cose, ma sostanzialmente è rimasta chiara l’espressione bipolare del voto degli italiani.
L’analisi dei flussi conferma che tutto il resto è variabile nella testa degli italiani, ma non il bipolarismo, che pure è stato messo duramente alla prova dal sistema proporzionale senza alcuno sbarramento.

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