Le contraddizioni dei referendari

Mancano pochi giorni al referendum che chiede agli italiani di pronunciarsi sull’abolizione della quota proporzionale. I Popolari sono contrari e rivendicano il diritto degli elettori all’astensione come “scelta politica” per far mancare il quorum: non per nostalgia dell’era della proporzionale o del centro, ma per la convinzione che le riforme si devono fare in Parlamento, senza semplificare questioni complesse come la legge elettorale. Dopo una lunga notte di incertezza, il referendum del 18 aprile sarà invalidato per mancanza del quorum.
Il Popolo, 14/04/1999

Neppure la formidabile escalation di sollecitazioni mediatiche nella settimana conclusiva della campagna referendaria è riuscita a smuovere il fastidio degli italiani nei confronti dell’appuntamento del 18 aprile. La ragioni del diffuso sentimento di stanchezza verso il referendum come strumento di partecipazione democratica non stanno nell’abuso – che pure talvolta abbiamo denunciato – che l’iniziativa pannelliana ne ha fatto in questi anni. La spiegazione più convincente va ricercata nella pratica esasperata di un uso estensivo del significato di queste prove.
Mario Segni, in particolare, ha caricato il referendum di suggestioni e interpretazioni taumaturgiche: da dieci anni sostiene con enfasi che la vittoria del Sì risolverà tutti i problemi del paese e garantirà sorti magnifiche e progressive.
È avvenuto così che le battaglie referendarie abbiano garantito una discreta rendita politica ai loro protagonisti, e contestualmente abbiano snaturato il senso proprio dell’articolo 75 della Costituzione.
Noi abbiamo sostenuto con sobrietà – che in queste circostanze ci è apparsa ineguagliabile virtù – le nostre ragioni. Vogliamo riassumerle. Il sistema elettorale generato dal quesito referendario – per via di una manipolazione graziosamente tollerata dalla Corte – è un mostro giuridico che assegna un quarto dei seggi alla Camera dei Deputati secondo un criterio di casualità e in assenza di qualunque logica, sia maggioritaria sia proporzionale. La casualità di assegnazione ai 155 migliori perdenti rende imprevedibile la maggioranza parlamentare e introduce un elemento distorsivo dei fondamentali principi della democrazia rappresentativa, perché in un collegio su tre vengono eletti vincitori e vinti del confronto elettorale. Un sistema siffatto non risolve né la questione della governabilità né quella della rappresentanza.
Noi siamo consapevoli che l’inadeguatezza del sistema elettorale contemplato nel quesito referendario non cancella il bisogno di un aggiornamento dell’attuale sistema. Pensiamo però che spetti al Parlamento trovare la misura e la coerenza di una legge capace di coniugare la risposta alla domanda di maggiore efficienza del nostro sistema democratico con la conservazione di un livello di matura permeabilità delle istituzioni al pluralismo della cultura politica italiana.
La maggioranza ha definito l’ordito di una legge che va in questa direzione: doppio turno di collegio, premio alla coalizione che vince, diritto di tribuna per i partiti che scelgono di non coalizzarsi. Qualunque sarà l’esito del referendum noi manterremo i nostri impegni, assunti solennemente dal segretario Marini e dal presidente Elia, in favore della legge proposta dal ministro Amato. Ricercheremo intorno a questo disegno il massimo consenso possibile, sollecitando al confronto quelle componenti del Polo che non hanno rinunciato all’idea di una stagione riformatrice delle regole che presiedono alla nostra democrazia.
La ripresa del lavoro parlamentare in direzione della riforma della Costituzione è un obiettivo che non consideriamo interesse esclusivo della maggioranza.
Per favorire questa prospettiva i Popolari faranno ogni sforzo, senza ambiguità o finzioni, con trasparenza e determinazione: la nostra scelta priva di incertezze per la coalizione di centrosinistra, in un sistema di bipolarismo che vorremmo compiuto, ci rende immuni dalle furbizie e dalle interpretazioni maliziose.
L’agenda politico-istituzionale ha suggerito connessioni e subordinazioni delle prossime scadenze all’esito del referendum: secondo alcuni un successo del Sì renderebbe ineludibile l’elezione di un Capo dello Stato “bipolarista” e “riformista”. È di tutta evidenza l’inossidabile strumentalità di un accostamento privo di fondamento politico, prima ancora che di coerenza lessicale nell’uso degli attributi presidenziali.
E tuttavia è cresciuta in noi la curiosità di scoprire se venga considerato più “bipolarista” e “riformista” chi sostiene il quesito referendario oppure chi è favorevole alla legge Amato-Villone; e, nel caso, come si autoclassificano i diversi leader di partito che hanno espresso favore ad entrambi.
Le contraddizioni della festosa compagnia referendaria suggeriscono che per molti protagonisti il referendum è diventato cosa ben diversa dal sostegno per una tesi piuttosto che per un’altra: è soltanto una tribuna di autopromozione nella prospettiva dell’appuntamento elettorale più importante, quello del 13 giugno.
È auspicabile che in questa confusa e discretamente spregiudicata competizione per il consenso non si perda quel patrimonio prezioso di stabilità e coesione politica che ha fatto vincere all’Italia la corsa per l’Euro, e che ci sembra indispensabile per vincere la sfida per il lavoro e l’occupazione.

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