Perché il governo del “cavaliere” era destinato a cadere. Il 12 novembre del ’94, a Nuoro, la relazione al primo congresso regionale del PPI della Sardegna. La politica deve diventare “amicizia”
I^ Congresso regionale PPI, novembre 1994
E’ trascorso un anno dall’Assemblea regionale.
In questi lunghissimi dodici mesi sono accadute moltissime cose – non tutte felici – che hanno segnato un battesimo di fuoco per quel nuovo soggetto politico voluta da noi con un carico di speranze e di entusiasmo che nessuno dei protagonisti potrà mai dimenticare.
Il carico di quelle aspettative, il carico di quella enorme fiducia ha pesato sulla mia coscienza in questi lunghissimi dodici mesi e pesa ancora di più in questa giornata d’autunno che segna la conclusione della mia esperienza di segretario.
Pesa di più perché si intreccia con la consapevolezza delle mie personali inadeguatezze e, insieme, delle generali difficoltà incontrate per restare nel solco di un grande impegno assunto davanti alla comunità politica della Sardegna.
Il battesimo del Partito popolare si è consumato in una estenuante teoria di formazione di liste, di campagne elettorali, di valutazioni e scelte alle stesse collegate.
Abbiamo sacrificato l’organizzazione di base, la trasformazione di quel movimento costituente in un partito strutturato, partecipato in un regime di nuova legalità da cittadini protagonisti della nuova stagione politica dei cattolici democratici sardi.
Siamo arrivati al congresso secondo un percorso diverso da quello che io – noi – avevamo pensato.
Ci arriviamo secondo modalità in qualche modo subite.
La nostra sensibilità avrebbe suggerito un processo inverso – aprendo dal basso – dalle nuove assemblee dei comuni, il corso di costituzione del Partito.
Nelle prossime settimane si celebreranno, aprendo la partecipazione a tutti i cittadini che lo vorranno, le assemblee di base per il Congresso provinciale.
Credo che sia giusto pensare al limite del prossimo anno per un secondo Congresso regionale.
Ma insieme a questo giudizio sui limiti organizzativi e di partecipazione al Congresso che a luglio elesse Buttiglione e, oggi con le stesse modalità elegge il Segretario regionale, voglio dire con molta franchezza a quegli amici che hanno espresso il loro disappunto (e io li ringrazio per averlo fatto con molta chiarezza, senza ipocrisie), io voglio dire che oggi abbiamo il dovere di privilegiare i contenuti della nostra politica, i contorni del nostro Partito, gli appuntamenti ai quali siamo chiamati.
Dobbiamo costruire, nella concordia, il futuro del nostro Partito ritrovando il filo di un discorso non interrotto ma in qualche modo frenato.
Abbiamo vissuto la fase della destrutturazione di tutto quello che della passata stagione appariva un ingombro.
Ora viene il tempo di impegnarsi per la composizione del nuovo.
Dobbiamo definire i contorni della nostra politica superando le tante inquietudini che hanno segnato l’avvio.
E prima di tutto liberandoci dalla tentazione di ripetere tutto ciò che intendiamo negare.
Nel Congresso nazionale molto dibattito, non solo interno, si è consumato nello sforzo di definirci per linee esterne, attraverso il carosello delle alleanze, di destra, di sinistra, di centro.
Io credo che l’identità popolare non possa essere una risulta di molte negazioni o approssimazioni: deve essere una proposta chiara e forte che abbia cittadinanza propria nel terreno del confronto politico.
Nella fase Costituente abbiamo scontato il disagio – anche lessicale, direi anche estetico per rendere l’idea – per l’inevitabile contiguità di storia con il passato, con i suoi ingombranti retaggi: non solo delle stagioni negative ma anche per il peso di una eredità positiva vissuta qualche volta con nostalgia qualche volta come pretesto assolutorio.
Ora siamo in un nuovo campo aperto.
Non è l’anno zero.
Questo lo pensano solo i selvaggi della nuova politica informati alla cultura degli spots: è che abbiamo imparato a vivere la storia presente senza farci scudo del nostro passato.
Per queste ragioni non dobbiamo permettere più ad alcuno di giudicarci per le cose di un tempo diverso né dovremmo consentire con quelle forze politiche improvvisate e pasticcione quando cercano legittimazione al loro presente fallimento di una politica senza orizzonte, nel passato di errori altrui.
E che di fallimento si tratti non è più un sospetto.
Basterebbe richiamare i fatti di questi giorni.
Lo sfilacciamento della manovra finanziaria, che ha perso per strada il rigore e ha conservato l’iniquità; la farsa grottesca della RAI che si consuma tutti i giorni nell’incredulità generale, superando tutti i limiti del comune senso del pudore; la drammatica improvvisazione con cui governanti presuntuosi e impreparati hanno avviato gli interventi di protezione civile nelle regioni del Nord; la tensione quotidianamente alimentata con gli altri poteri dello Stato e in particolare la impudica intimidazione rivolta alla Magistratura; la contrapposizione con il mondo del lavoro che oggi scende in piazza a segnare un conflitto sempre più acuto le cui ombre si allungano minacciose sull’accordo del luglio ’93 con gli effetti prevedibili sul costo del lavoro e con esso sulla tenuta dell’economia nazionale; e, infine, il segno della sfiducia internazionale che si riflette sulla valutazione della nostra moneta.
La lira in sei mesi si è svalutata del 5%.
Anche questo è un complotto?
Oppure è il segno della vacuità del Governo dei miracoli che aveva promesso agli italiani “magnifiche sorti e progressive”.
Ecco, questo Governo e questa maggioranza nella loro crisi manifesta, nella dissoluzione del loro precario collante, dimostrano una cosa più importante del fallimento di un Governo: dimostrano che l’evoluzione del sistema politico italiano è ancora aperto, che la traiettoria della transizione non si è conclusa, che le sfide del nostro futuro si giocheranno su campi diversi.
Non basteranno gli slogans dell’anticomunismo e dell’antifascismo.
Né basterà certificare una propria dislocazione a destra e a sinistra, per essere affidabili.
In questa società che non ha più interesse per le ideologie, in questo fine secolo che ha sconfitto drammaticamente l’illusione comunista rimuovendola, nella coscienza dei giovani, dalla categoria dei sogni romantici, in questa epoca che ha archiviato rapidamente tante storie di uomini del destino, in questo Paese che ha nella tradizione del trasformismo una costante del suo costume politico e sa indulgere senza reazione alle continue rivoluzioni della toponomastica, in questo Paese non avremo un grande futuro se non sapremo liberarci dai vecchi e dai nuovi feticci del manierismo ideologico.
Dobbiamo uscire, tutti insieme, da questo inutile e ossessivo paradigma di un immaginario politico inattuale, che vorrebbe dividerci in destri e sinistri nell’evocazione drammatizzata di storie concluse.
Quel paradigma, quella drammatizzazione non può più esserci di soccorso nel dispiegarsi della vita reale.
Sembra ogni giorno di più incoraggiare la lettura di un mondo virtuale.
Noi dobbiamo scegliere, senza incertezze, di stare nella storia vera.
Dobbiamo cogliere la domanda sociale così come di affaccia tumultuosa e complessa dietro le cifre aride di un voto, dietro la sintesi di un sondaggio.
Esiste, si va ogni giorno più chiaramente manifestando una nuova architettura sociale, con nuovi caratteri di cultura, di convenzioni, di bisogni, di modelli e di interessi.
Il ceto medio lungo – come si dice – ha modificato profondamente i caratteri della domanda sociale, informando di sé, della sue aspettative anche i segmenti ad esso estranei.
Esiste una forte domanda di libertà: ma è più segnata rispetto al passato dalle pulsioni di un egoismo sistemico, individuale, di territorio, di corporazione, di colore.
E questa nuova domanda sociale così esigente e spesso così contraddittoria convive con una sempre flebile disponibilità ad accogliere la complessità dell’offerta di governo, ad accogliere la politica come una categoria virtuosa del quotidiano.
Anche in Italia cresce il disinteresse per la politica: il diffuso discredito rappresenta insieme causa ed effetto di questo nuovo atteggiamento.
In questa storia vera, più esigente e per molti di noi più difficile, dobbiamo ricercare il filo della nostra politica.
Abbiamo marcato molto nella fase costituente i caratteri della nostra identità, la singolarità dell’esperienza dei cattolici nella politica italiana, l’attualità della nostra presenza: e tuttavia – nell’orizzonte non precario né accidentale del maggioritario – dovremo curare con più determinazione la nostra offerta di Governo, una proposta persuasiva per una fascia più larga di società italiana.
Quando si esaurirà la fase radicale di questa stagione, quando apparirà nella sua evidenza l’artificiosità di un bipolarismo incardinato su posizioni estreme, quando questo ciclo di esasperazioni e di suggestioni mostrerà la deriva – e mi pare che non occorra molto – allora avrà consenso una posizione di moderazione, di politica temperata che sappia offrire una approdo persuasivo all’evoluzione di tutte quelle forze riformiste, federaliste e liberaldemocratiche che hanno avuto il coraggio di mettersi in discussione di ripensare il proprio rapporto con la società italiana.
E lo snodo decisivo riguarderà quella equazione di libertà e solidarietà che ha bisogno di essere riconsiderata in un tempo nel quale costi e speranze crescenti si sposano alla delusione della risposta statuale e mettono in discussione lo stesso valore della cittadinanza del vincolo che alimenta il nostro patto comunitario.
Ho letto ieri l’appello degli amici del Patto Segni.
Mi sembra che al di là delle forme, di una qualche indulgenza alla vanità di primogenitura, esistono solide ragioni per ricostruire un tessuto robusto di impegno comune.
D’altra parte è stato questo il mio tarlo in tutto questo tempo, quasi un’ossessione secondo i miei collaboratori: quella di rintracciare nella politica tutte le ragioni che possono farci incontrare nel solco di una tradizione che in larga misura è comune, ma anche nell’ambizione di scrivere insieme le pagine nuove del domani del nostro Paese.
Ecco, amici, io credo che usciamo dalla lunga stagione elettorale forse frenati nel nostro entusiasmo ma in qualche modo più maturi, più disponibili ad una fase di competizione senza rendite.
Io rimando per brevità ai documenti della Costituente e del Congresso nazionale come a un riferimento ineludibile per nostra attività.
Credo che dovremo operare uno sforzo di riflessione nel nostro dibattito congressuale per precisare meglio i modi e i tempi della nostra politica in Sardegna.
Il risultato elettorale di giugno, insieme alla generosa espressione di consenso per il Partito popolare, ci ha conferito il dovere di assicurare la governabilità della regione.
Abbiamo assunto la responsabilità di favorire la nascita della Giunta Palomba, nonostante le non poche riserve espresse nel Gruppo Consiliare e nello stesso Congresso di Oristano.
Credo che siano note – le ho più volte, ma soprattutto lo hanno fatto in aula i Consiglieri regionali – le ragioni per le quali abbiamo ritenuto non perseguibile una strada diversa.
Abbiamo operato questa scelta per rispetto della indicazione elettorale e per coerenza con gli impegni da noi assunti in campagna elettorale.
Noi sappiamo mantenere gli impegni e questa pensiamo essere virtù in un tempo che spesso ci appare dominato dai furbi.
Ora la Giunta è al lavoro.
Nel Governo sono impegnati tre amici di valore, tra amici popolari ai quali voglio esprimere la mia personale stima e simpatia e, insieme, la fiducia che sappiano ricercare – in tutte le circostanze di una esperienza così esigente e così difficile – che sappiano ricercare una relazione positiva con il partito nel quale si riconoscono e con le ragioni ideali che noi rappresentiamo.
Noi abbiamo dichiarato nel nostro atto costitutivo la volontà di rispettare le autonomie istituzionali del Governo.
Non intendiamo occupare le istituzioni: pensiamo che ci sia ancora bisogno di alleggerirle dai molti ingombri che la lunga stagione di potere dei partiti ha diffuso in ogni angolo delle istituzioni democratiche.
Ma, insieme a questa convinzione, dobbiamo riaffermare il convincimento che le funzioni di governo non sono una questione tecnica, come ogni tanto sembra sostenersi: sono funzioni politiche. Nessuna confusione può essere avallata.
Dobbiamo interrompere la pratica di progressiva delegittimazione della politica e dell’impegno politico: quando cessa la politica resta solo la relazione dei numeri che spesso coincide con la relazione muscolare degli interessi forti che sovrastano quelli più deboli.
Questo non può essere di un partito popolare.
Per questo dobbiamo pretendere dai nostri Consiglieri regionali e dai nostri Assessori che siano sempre all’altezza dei loro doveri, che siano sempre rispettosi delle loro autonomie: ma che non allentino mai il filo della coerenza con il patto fiduciario che noi – tutti insieme – abbiamo contratto con i cittadini elettori.
E dovranno gli uni e gli altri vigilare perché non si verifichi che nel nome del nuovo corso e di una discontinuità interpretata come negazione sistematica di tutto il passato si cancellino anche le pagine migliori della nostra storia autonomistica.
Abbiamo voluto l’elezione dell’onorevole Palomba.
Lo abbiamo fatto, responsabilmente, esprimendo apprezzamento, consenso e una delega forse più estesa del giusto, per i suoi propositi dichiarati.
Ma voglio dire con molta franchezza che insieme ai propositi dovremo – sarà compito della nuova dirigenza – dovremo con molta fermezza valutare la coerenza dei comportamenti del Presidente della Regione rispetto a quei propositi.
In un rapporto che io voglio augurare virtuoso, tra gruppo consiliare e segreteria del Partito, bisognerà stabilire i tempi certi per una verifica puntuale di questa esperienza.
E bisognerà farla partendo dalla convinzione che quello che giova al nostro Partito è ciò che giova alla Sardegna.
Questa è la bussola alla quale dovremo orientare le nostra valutazioni e i nostri giudizi.
La Sardegna vive insieme alla crisi della sua economia, insieme alla crescente espansione della insofferenza sociale indotta dalla disoccupazione, insieme allo smarrimento di un riferimento istituzionale forte e persuasivo come l’autonomia regionale – logorata da una dissipazione sconsiderata delle risorse, dalla soffocante inefficienza della sua macchina amministrativa e dalla precarietà strutturale della guida politica – la Sardegna vive insieme a questa condizione di crisi, una straordinaria mutazione della domanda sociale.
Va crescendo in contrasto, in reazione alla vecchia consuetudine assistenzialista, petulante e clientelare, una nuova generazione di sardi desiderosi di successo, protesi ad affermare il primato dell’intelligenza, la volontà di affrontare e vincere la competizione, trasformando antichi vincoli e svantaggi in moderne opportunità.
A partire dalla nostra insularità mediterranea, dalla qualità Sardegna – che è sigla di ambiente, arte, cultura, civiltà, suscettibile di attrarre interesse, di accrescere di un autentico valore aggiunto i prodotti della nostra economia.
Cresce una generazione disposta a scommettere sulla propria intelligenza, indisponibile per un ruolo rassegnato di marginalità.
Questa generazione di sardi non è soddisfatta di questa Regione.
E vorrebbe cambiarla.
Dobbiamo trovare, ritrovare un rapporto di affezione reciproca tra i cittadini sardi e l’Autonomia: un rapporto fondato sulla consapevolezza che nell’orizzonte di fine secolo saranno sempre più scarse le possibilità di aiuto esterno e sempre più frequenti le occasioni di competizione.
L’esperienza di queste settimane nel dibattito parlamentare sulla manovra economica ci ha dato la misura di una grande debolezza della Sardegna.
Ho scoperto quanto sia appannata l’immagine della nostra specialità, quanto siano esaurite le scorte di credibilità accumulate negli anni migliori della nostra storia autonomistica.
Ma, insieme, abbiamo avvertito un fragoroso richiamo al dovere che abbiamo noi sardi per un governo assolutamente più rigoroso delle nostre risorse.
Occorre definire il progetto Sardegna: il governo regionale, il Consiglio regionale non può contemplare la crisi: ha il dovere di usare il timone.
Diversamente non si regge.
Né possiamo rifuggiarci nell’auspicio dei maggiori poteri: qualche volta questo auspicio ha suonato nelle orecchie dei cittadini sardi come un pretestuoso riparo per nascondere responsabilità che appartengono all’uso dei poteri disponibili.
Nessuna riforma dello Stato in senso federale può avere successo per la nostra comunità regionale se non sapremo dare un’anima al nostro autogoverno.
L’autonomia, la nuova dimensione statuale che vogliamo costruire, non può essere una nuova edizione di vecchie burocrazie.
La nostra grande ambizione è quella di suscitare nella nostra comunità regionale un grande vincolo di concordia, un grande patto di solidarietà che sappia esaltare il nostro sentimento di popolo, incardinandolo sui principi, bisogni, speranze che qualificano lo specifico della nostra appartenenza, la nostra identità; un patto che sappia impedire un vizio antico: quello di tradurre le diversità politiche in fazioni sociali ed economiche.
Ho colto, ancora qualche mese fa, all’indomani del 27 marzo una pericolosa pulsione in molti ambienti della politica e dell’economia sarda: quella di confondere la parte, la fazione quand’anche vincente, con il tutto, come pure i vincitori con il Paese e i perdenti con gli esuberi della nazione da inviare in esilio.
Noi dobbiamo coltivare l’ambizione di una società sarda che ritrovi un’unità profonda con meno pregiudizi, più carità, più giustizia.
La nostra risorsa più importante può essere la società sarda, l’insieme delle intelligenze, delle culture, delle storie, delle volontà, quando sapesse disperdere le scorie di antiche diffidenze a anacronistici conflitti.
Quando io penso all’Autonomia alla nostra nuova dimensione statuale, penso ad uno sforzo politico capace di rintracciare e amplificare nella coscienza dei sardi le ragioni del vincolo solidaristico, del comune destino: le ragioni che rendono – se tradotte nella politica – la questione sarda non un problema sindacale o di governo, ma una questione nazionale.
Una Sardegna protagonista di relazioni proprie, né timida né subalterna ma responsabile autorevole e affidabile in forza di un proprio disegno, in ragione di una propria esperienza di lavoro, di creatività, di studio, di civiltà.
Una Sardegna che sceglie la strada dello sviluppo partendo dal suo ambiente e dalla sua cultura, che sa negoziare in Europa e nel mediterraneo che investe in ricerca e innovazione, che ha il consenso dei suoi cittadini perché li ha fatti diventare attori partecipi del proprio destino.
Per concorrere al disegno di una nuova Sardegna c’è bisogno di una grande Partito Popolare. Oggi sceglieremo una nuova dirigenza regionale, da domani dovremo tutti impegnarci nelle assemblee di base per i congressi provinciali e – nei tempi possibili – sarà forse giusto un nuovo congresso regionale.
Discutiamo e scegliamo le nostre dirigenze con serenità e con amicizia.
Abbiamo un grande bisogno di essere amici.
In questi dodici mesi abbiamo dato prova di voler corrispondere alla domanda di rinnovamento con decisione e rigore.
Il processo di formazione delle liste elettorali è stato un banco di prova durissimo; per chi lo ha guidato occasione di un’esperienza umana non facile: è costata il sacrificio di non poche amicizie, forse un pò di più.
Ma è stata anche l’occasione per scoprire generosità insospettabili: il fatidico passo indietro è stato più diffuso e sincero di quanto non si creda.
Certo la stagione del rinnovamento radicale è costata anche in termini di consenso elettorale.
Non credo che dobbiamo rinnegare le nostre scelte: il rinnovamento è un processo che deve continuare perché corrisponde alla concezione della politica come un servizio e non come un mestiere.
Personalmente mi sento impegnato ad onorare questo metodo e questo processo: senza affanno e senza inutili resistenze.
Sono convinto anch’io che la politica è importante, ma la vita è più importante della politica.
Tuttavia voglio dire con molta franchezza che il rinnovamento non può essere più vissuto – se mai lo è stato – come una resa dei conti né come un momento radicale e manicheo.
E neppure possiamo permettere un clima in cui appaia negata ad alcuno il diritto di cittadinanza: che deve essere piena e responsabile, non tollerata né sgradita.
Il Partito popolare ha bisogno di tutte le nostre energie: perché è il tempo di spendersi in un servizio piuttosto che per esercitarsi in una improbabile dissipazione di potere.
Per questo dobbiamo pagare per la nostra unità, dobbiamo pagare tutti il tributo della nostra personale umiltà.
Se ne saremo capaci, riusciremo ad essere più uniti e più forti.
Io concludo, amici, questa mia esperienza di Segretario regionale.
E’ stata per me assai più di un incarico politico: quest’anno ha segnato profondamente la mia vita.
Abbiamo vissuto insieme giornate esaltanti e momenti di grande amarezza.
Non è retorica se dico che voglio ringraziare tutti quelli che con me hanno collaborato: quasi tutti hanno dato più di quanto abbiano ricevuto.
E non è per retorica se intendo chiedere scusa a quanti si sono sentiti delusi dalla mia persona: posso solo dire che non è stato facile.
Agli uni e agli altri desidero chiedere di riprendere con coraggio, con fiducia, con passione il cammino politico.