Decreto Tremonti, le intenzioni e la realtà

La dichiarazione di voto in Aula alla Camera il 20 luglio del ’94, a nome del gruppo dei popolari. Si alla semplificazione e agli incentivi alle imprese, no ai trucchi contabili e alla emarginazione delle aree deboli del Paese.

Camera dei Deputati, luglio 1994

 

Noi abbiamo seguito con molto interesse questo provvedimento.
Rappresenta un’occasione significativa per il dispiegarsi della politica del nuovo governo e abbiamo inteso valutarlo senza pregiudizi e senza atteggiamenti di inutile ostilità.
E’ il primo segno concreto di traduzione delle ambizioni dichiarate in manovra economica.
Le intenzioni, gli obiettivi sono tali che solo un pregiudizio potrebbe indurci ad atteggiamenti oppositori.
Sono buone intenzioni, sono obiettivi condivisibili.
Semplificare le procedure, ridurre il carico fiscale delle imprese e in particolare delle nuove giovani imprese, incentivare la nuova occupazione: sono un programma che ci sentiamo di condividere.
Perché centra il problema principale della nostra emergenza economica e sociale: cercare un punto di relazione politica capace di rilanciare gli investimenti, di creare una crescita che si accompagni ad un significativo aumento dell’occupazione.
E’ difficile contestare la giustezza dell’obiettivo.
Noi abbiamo espresso dubbi e perplessità, e anche qualche rilievo critico, non sulle intenzioni e sull’obiettivo ma piuttosto sulla idoneità di queste norme, sulla loro efficacia rispetto all’obiettivo dichiarato.
I nostri dubbi, le nostre perplessità sono in parte riconducibile ad una visione parziale del disegno del Governo.
La mancanza – oggi 20 luglio – del documento di programmazione economica non favorisce il nostro lavoro.
Forse il documento – quando il Governo riuscirà a vararlo – renderà più comprensibile l’ordito.
Ma in assenza, dobbiamo fare un tentativo di giudizio.
Per valutare se la norma davvero possa indurre la ripresa – una ripresa maggiore, quantitativamente maggiore, aggiuntiva, rispetto a quella fisiologica che accompagna la conclusione di una fase recessiva.
Se la norma possa indurre uno sviluppo che non riduca l’occupazione, che la faccia crescere, invertendo la tendenza in qualche modo implacabile che abbiamo verificato in questi anni, che ha da tempo divaricato sviluppo e occupazione, segnandone di norma, un’inversa direzione.
Se questo obiettivo possa essere perseguito dentro uno schema di diffusione nazionale del processo, tale da rendere visibili gli effetti di nuova ricchezza e di nuova occupazione non solo in una parte del Paese, ma in tutte, anche in quelle nelle quali più acuta appare la crisi.
In questa valutazione abbiamo rappresentato e vogliamo confermare le ragioni del nostro contrasto.
Non tanto in ordine agli effetti positivi che una certa deregolazione e semplificazione negli adempimenti e nelle procedure indurranno quanto in riferimento al pericolo che in qualche misura viene evocato: che insieme alla semplificazione venga incoraggiata una nuova deprecabile elusione.
Ad esempio le disposizioni contenute nell’art. 1 e 2 sono sicuramente convenienti per le aziende: in passato di fronte a simili opportunità si è verificata una massiccia operazione di trasferimento nominale della titolarità (ad esempio da padre a figlio ect.) per costituire un robusto corpo di “nuove aziende”.
Può essere che questo comportamento non debba più verificarsi.
Ma non ci sembra che questo rischio sia stato seriamente valutato e opportunamente contrastato.
E il ritiro coatto dell’emendamento 2.01 ci conferma nel giudizio.
Al Governo non sfugge che se dovesse allargarsi l’area di elusione, verrebbe fortemente contraddetta l’intenzione dichiarata.
Un’altra perplessità abbiamo espresso in ordine alla modalità con cui la manovra ha pesantemente occupato spazi di autonomia finanziaria degli enti locali, in palese contrasto con un processo legislativo che negli anni passati aveva aperto una nuova stagione nella finanza locale.
E ancora in ordine al premio di assunzione: noi siamo in assoluto contrari.
Ma non ignoriamo altre esperienze, sia nel nostro che in altri Paesi.
Esistono, e sarebbe stato utile un coordinamento con le stesse, leggi dello Stato e leggi delle Regioni che da circa un decennio hanno introdotto forme diverse di incentivazione per le nuove occupazioni.
Lo spessore degli incentivi spesso non è inferiore a quello contemplato nel decreto.
Ma queste esperienze rivelano una scarsa coerenza tra le aspettative e gli effetti registrati.
E’ fondato il sospetto che si ingenerino processi di sostituzione piuttosto che di addizione.
Il sistema delle imprese tende ad assumere lavoratori sussidiati anziché non sussidiati: con un risultato finale assai modesto.
E tuttavia occorre nutrire fiducia: può darsi – non si può escludere – che questo provvedimento sia più fortunato.
Quello che mi pare meno incerto è il risultato della manovra sul terreno degli equilibri tra aree forti ed aree deboli, tra aree a forte intensità di inoccupazione e disoccupazione e aree nelle quali il problema è circoscritto nei limiti sopportabili del 6 – 7%.
Quello che mi sembra certo è il destino territoriale della manovra: l’assenza di un qualunque criterio di selettività e la combinazione degli effetti di cumulo con il complesso degli aiuti compatibili con la normativa comunitaria mi sembra chiaramente, ineluttabilmente aprire una stagione di nuova forte tensione tra le aree forti e le aree deboli del nostro Paese.
La discussione non ha fugato le nostre perplessità: l’assenza del documento generale di programmazione economica e una certa impermeabilità al confronto vero rendono allo stato difficile una previsione attendibile circa gli effetti del provvedimento rispetto alle intenzioni e agli obiettivi dichiarati.
Ma esiste un aspetto di questo disegno di legge che ha richiamato più di tutti la nostra attenzione e la nostra sincera preoccupazione.
E voglio dire che nessuno deve affrontare questo problema con intenti strumentali, né la maggioranza privilegiando la propaganda rispetto al rigore, né l’opposizione ignorando la migliore intenzione del Governo.
E’ certo che una riduzione della pressione fiscale sia gradita ai cittadini e noi non saremo fra quelli che invocano più tasse da un governo che invece generosamente le vuole ridurre.
Ma sappiamo che questa riduzione della pressione fiscale non può avvenire a costo di un allargamento del debito pubblico. Se questo fosse in realtà noi faremmo una finzione per il cittadino: concorreremo a renderlo più povero raccontandogli che è più ricco: un po’ un imbroglio.
In questo senso abbiamo espresso la nostra opinione circa il problema della copertura. Il Governo sostiene che gli incentivi economicamente rilevanti presenti nel decreto generino una grande quantità di nuovi posti di lavoro e che l’accrescimento dell’area imponibile possa da sola alimentare con maggiori entrate contributive la copertura finanziaria del Provvedimento.
In ragione di questo teorema il Governo sostiene di poter rinunciare sia agli obblighi verso l’art. 81 della Costituzione sia agli obblighi verso una procedura di rigore che in tutti i Paesi europei è ormai consuetudine acquisita.
Fuori da un documento generale di programmazione, fuori dal contesto della definizione complessiva degli equilibri di Bilancio l’obbligo di copertura è un elemento di garanzia del quale non ci si può e non ci si deve privare.
E nel corso di qualche settimana il Governo è passato da una previsione di maggiori entrate stimata in 9000 miliardi ad una ipotesi di saldo negativo per 400 miliardi.
Secondo le previsioni di autorevoli neutrali istituzioni di ricerca economica, il costo del decreto sarà di circa 5000 miliardi.
L’introduzione successiva di uno strano emendamento di copertura eventuale nella misura eventuale di 400 miliardi sulla base di un accertamento, eventuale anch’esso, da parte del Ministro delle Finanze, rappresenta una singolare e preoccupante innovazione nelle procedure del Bilancio dello Stato.
L’emendamento non solo non ha fugato le nostre preoccupazioni – confrontate dalla serietà e dall’autorevolezza del Servizio Bilancio della Camera e non confutate dalla reazione infastidita del Ministro delle Finanze – ma anzi le ha in qualche modo rese più acute.
Traspare un certo disprezzo per le regole e per i principi, quasi a voler privilegiare la gestione.
Noi non contestiamo la legittimità dell’onorevole Berlusconi o della sua maggioranza a governare il Paese: siamo convinti che dentro un quadro di garanzia, questo sia utile per affermare la compiutezza della nostra democrazia.
Sappiamo che la traduzione dei sogni in atti di Governo è cosa complessa e difficile e non intendiamo sottovalutare l’impegno e la determinazione che ci vengono tutti i giorni dichiarati.
Ma non permetteremo che vengano confusi i meccanismi complessi ed esigenti dello Stato di diritto con vecchie ferraglie di un antico regime.
Esistono limiti di garanzia reciproca che non giova forzare.
Il segnale che viene da questo Decreto non può essere sopravalutato: può forse essere solo un episodio, un momento.
Ma vigileremo perché non sia la spia di un sistema.
Il complesso delle vicende politiche di questi giorni ci fa sospettare che non sia solo un episodio.
Per queste ragioni i deputati del Partito popolare voteranno contro la conversione del Decreto.

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