Alla vigilia della guerra nel golfo

Discorso in Consiglio regionale, 16/01/1991

 

Signor Presidente, colleghi del Consiglio, in queste ore, nelle quali milioni di persone scendono nelle strade per manifestare l’angoscia del mondo libero per la sempre più possibile guerra nel Golfo, in queste ore è giusto e naturale che anche noi, espressione delegata della comunità regionale sarda, ci ritroviamo in Aula, senza ritualità, senza pretese, per esprimere sentimenti e riflessioni che dominano ormai i nostri interessi.

Perché anche i più freddi e disincantati di noi hanno avvertito un sentimento di inquietudine, un sentimento che, a ben rifletterci, era sconosciuto alla mia generazione.
Abbiamo la sensazione che gli eventi procedano inarrestabilmente, in un susseguirsi apparentemente indifferente ai ragionamenti, alle proposte di mediazione: indifferenti al merito stesso di problemi sottesi.
Il governo di Bagdad e il suo regime sanguinano, che è già costato al popoio iracheno milioni di vittime innocenti, restano sordi agli appelli della comunità internazionale per reintegrare nei suoi legittimi diritti uno Stato sovrano, membro dell’Onu, e rifiutano ogni forma di dialogo proposto dalle massime autorità civili e religiose di tutto il mondo.

E tuttavia se noi tentassimo rifugio in un generico pacifismo, pur apprezzabile sul piano delle ragioni etiche, non potremmo mettere in pace la nostra coscienza.
Così come io credo, tutti noi – penso – crediamo, sia illusoria la congettura secondo la quale la complessità dei problemi economici, culturali, demografici, religiosi, del diritto che la crisi del golfo ha in qualche modo ricompreso, possa – questa complessità – essere sciolta con uno sbrigativo atto di forza. La guerra, come ha ricordato Giovanni Paolo II, non può che aggravare ogni problema, con un carico insopportabile di devastazioni e di sangue.

Ma non è la paura, che pure non va taciuta nè irrisaanche se in qualche modo contigua al riflusso opportunistico della nostra modernità – non è la paura che può guidare le nostre riflessioni.
La salvezza della pace – della pace secondo giustizia – sollecita piuttosto un paragone assai esigente con la tutela del diritto internazionale.

E tutti noi ci siamo chiesti in questi giorni se possa esistere un diritto internazionale che sia di per sé persuasivo in assenza di un deterrente militare.
E inevitabilmente abbiamo visto riemergere il condizionamento insopprimibile della nostra storia, della nostra cultura, della nostra civiltà: che non sono però la storia, la cultura e la civiltà del mondo intero.
Noi vogliamo riaffermare che è giusta e doverosa la richiesta all’lrak da parte dell’Onu di ritirarsi da una inammissibile occupazione come premessa a soluzioni pacifiche nell’ambito della Conferenza sui problemi dello sviluppo e della sicurezza di tutti i popoli del Medio Oriente.

E siamo persuasi che gli altri drammatici problemi aperti nel Medio oriente, dalla indipendenza minacciata del Libano alla impedita autodeterminazione del popolo palestinese, non costituiscano una ragione accettabile perché l’Irak venga meno ai suoi obblighi internazionali.
Al contrario l’occupazione del Kuwait ostacola la soluzione dei problemi medio orientali.
E tuttavia non possiamo sottrarci dal richiamare una convinzione che sentiamo profondamente intrecciata con le nostre radici e con la nostra ispirazione ideale: la guerra, anche quando appare inevitabile non è mai giusta.

Essa non è una delle eventualità della storia, ma anzi ha sempre rappresentato il momento della negazione del possibile, la fase della mortificazione del pensiero e della proposta, il momento dell’urto cieco, al termine del quale è sempre più difficile credere che si possa costruire un ordine mondiale più giusto.
Abbiamo la convinzione che molti sforzi siano stati compiuti per evitare una soluzione cruenta e che forse altri ancora possano dispiegarsi.

Per converso, nessuno può sottovalutare gli effetti che una condizione di inerzia potrebbe produrre sulla situazione internazionale. L’Organizzazione della Nazioni Unite per la prima volta ha conquistato, col consenso libero e motivato, la possibilità di tutelare in maniera efficace, concreta e determinata la pace e la sicurezza dei popoli: una autentica funzione di governo delle relazioni internazionali ispirate al rispetto dei principi della convivenza pacifica tra gli stati.

Ma questa prospettiva di un nuovo più alto e civile ordinamento può essere brutalmente delegittimato da una condizione di inerzia. Un governo che non sapesse far rispettare le regole della legalità, dopo averle più volte e con pressoché universale consenso riaffermate, di fatto sancirebbe il proprio dissolvimento, lascerebbe libero il campo alla regola del più forte.
Questo dilemma, questa contraddizione fra l’esigenza di pace e la necessità di far rispettare i principi della convivenza, sembrano ad ogni ora che trascorre, ad ogni rifiuto irridente e provocatorio che il Capo dello Stato iracheno pronuncia sempre più irriducibili.

La nostra inquietudine è resa ancora più acuta dai recenti drammatici eventi di Vilnius.
Il declino rapido e tumultuoso del vecchio ordine comunista che abbiamo applaudito come una vittoria della democrazia e della civiltà si accompagna ad eventi che suscitano insieme riprovazione, disgusto, orrore per le immagini che i media hanno consegnato al mondo, ma anche nuovi esigenti interrogativi.
La situazione della Lituania e degli altri paesi baltici ci induce a riflettere sulla precarietà degli equilibri raggiunti nel 1990, ci ripropone l’incertezza di una svolta che ritenevano irreversibile.

Noi che abbiamo la fortuna di non dover decidere, noi che possiamo solo concorrere insieme a milioni di persone a far crescere la pressione politica e morale su chi ha la drammatica responsabilità di decidere, noi avvertiamo per intero il disagio di questi giorni, le contraddizioni che ci coinvolgono e per quel che ci riguarda, persuasi che in materia di pace non esista l’ultima parola, confidiamo molto nella Provvidenza di Dio

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