Non siamo contrari a tracciare i passeggeri in Europa, privacy e sicurezza non sono in contraddizione

(Huffington Post, 14 gennaio 2014)

“La Costituzione esclude il perseguimento dello scopo della sicurezza assoluta a prezzo dell’annullamento della libertà”. Dopo i fatti di Parigi dovremmo riflettere su questa affermazione, contenuta nella sentenza della Corte costituzionale tedesca sulla Rasterfahndung (controlli di polizia massivi per fini antiterrorismo, intensificati dopo l’11 settembre). Dovremmo rifletterci per evitare che la doverosa condanna del terrorismo degeneri in quelle pulsioni autoritarie che carsicamente riemergono, ogniqualvolta la violenza fondamentalista torna a ricordarci la vulnerabilità delle nostre democrazie. Che sono e restano tali solo se – ricordava Ahron Barak – sanno lottare con una mano dietro la schiena: senza rinunciare, cioè, alle garanzie e ai principi su cui si fondano, distinguendosi così davvero dai loro nemici.

Così dopo il 7 gennaio, va evitato il rischio di tornare a spostare il baricentro del rapporto libertà-sicurezza (che dopo il Datagate era tornato in equilibrio) unicamente verso la seconda. O meglio, verso un’idea tirannica di sicurezza, come antagonista dei diritti. La tutela delle libertà è invece, essa stessa, il primo, vero modo d’intendere la sicurezza in uno Stato di diritto (e non in uno Stato di prevenzione). E questo è tanto più importante per un ordinamento, quale quello europeo, che dopo le rivelazioni di Snowden ha rappresentato, sempre di più, un modello cui tendere (e cui gli stessi Usa tendono), nella disciplina del rapporto tra privacy e intelligence; libertà e sorveglianza; cittadino e autorità.

È figlia di questa sensibilità la sentenza di maggio con cui la Corte suprema americana ha esteso alla perquisizione dei cellulari le tradizionali garanzie previste per le misure limitative della libertà personale, affermando che il costo della privacy è il valore della democrazia. Ed è una pronuncia che non a caso ha grandi affinità con le due coeve sentenze della Corte di giustizia su data retention e oblio.

Queste tre pronunce hanno in comune la qualificazione della protezione dati come principale presupposto di libertà nell’era digitale: diritto d'”inviolata personalità” senza il quale ogni democrazia rischia di cedere alla logica totalitaria dell’uomo di vetro e la rete di ridursi a spazio anemico dove globalizzare non le libertà ma l’indifferenza ai diritti. È da qui, allora, dalla centralità dell’habeas data nelle nostre democrazie che deve partire l’Europa per combattere il terrorismo e ogni fondamentalismo senza rinnegare se stessa e la propria identità.

Ma ovviamente, questa difesa della privacy è tutt’altro che una difesa “suicida”: è, all’opposto, la sola vera strategia efficace per proteggerci dalle minacce cibernetiche e da un terrorismo che sempre più si alimenta della rete per reclutare nuovi adepti, promuovere il fondamentalismo e l’intolleranza, passare dallo spionaggio informatico alla concretissima, reale, violenza delle stragi e degli attentati. La privacy è, in questo senso, la migliore sintesi di libertà e sicurezza, perché solo proteggendo i nostri dati possiamo proteggere le nostre democrazie.

Una congerie ingestibile di dati, come quella prodotta dalla sorveglianza di massa e dalla pesca a strascico nelle vite degli altri, è infatti del tutto inutile alle indagini in quanto priva di reale efficacia selettiva e impossibile da analizzare come richiederebbero le esigenze investigative. Non solo: accresce la nostra vulnerabilità e le fonti di rischio, perché rende le nostre banche dati maggiormente appetibili per attacchi dimostrativi o per lo spionaggio cibernetico, soprattutto alla luce dell’evoluzione subita dal crimine informatico, realizzato sempre più in forma organizzata e dunque più temibile perché in grado di arrivare davvero “al cuore dello Stato”.

Un’efficace azione di prevenzione del terrorismo deve dunque selezionare (con intelligenza, appunto) gli obiettivi “sensibili” in funzione del loro grado di rischio e fare della protezione dati una condizione strutturale della cyber-security. E questo tanto più adesso, quando l’azione terrorista, sempre meno “spersonalizzante”, concentra i suoi obiettivi non più sulle istituzioni-simbolo (quale era ad esempio il World trade center) ma sulle persone-simbolo (i redattori di Charlie, che personificano il rapporto media-opinione pubblica), selezionate in base a un’accorta profilazione del soggetto. Tutt’altro che un ostacolo, la privacy è semmai un presupposto per la condivisione e l’efficiente gestione di informazioni tra autorità investigative dei vari paesi, in un quadro di garanzie e di adeguata selezione dei dati realmente utili ai fini d’indagine. Per questo non siamo contrari a un Pnr europeo che preveda tempi di conservazione dei dati ragionevoli e proporzionati alle esigenze delle indagini per gravi reati.

E proprio oggi, di fronte alla riproposizione di un’anacronistica chiusura dello spazio Schengen, dovremmo ricordare che un’adeguata legislazione sulla protezione dati è stata sempre la condizione posta ai vari Governi (il nostro per primo) per farvi parte. A dimostrazione, dunque, della sinergia (tutt’altro che antagonismo!) tra protezione dati e sicurezza, tanto più in un mondo che, per fortuna, ha visto cadere ormai ogni frontiera.

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