Introduzione: Sono partito democratico. Appunti di un viaggio

Prefazione di Salvatore Vassallo, 22 ottobre 2007

 

E’ abbastanza inusuale che la prefazione di un libro venga affidata a una persona più giovane e con meno esperienza dell’autore. Ma non mi ha stupito che Antonello Soro me lo abbia chiesto perché mi era già capitato in un’altra occasione di ricevere da lui un invito a esprimere opinioni sul progetto del PD, in un momento in cui la mia reputazione nel ramo era ancora meno solida di oggi. A dire il vero, la mia reputazione è cresciuta proprio a seguito di quel primo invito. Anche se pochi lo sanno, e molti danno per scontato che le cose siano andate diversamente, fu infatti per sua iniziativa, e comunque sotto la sua responsabilità politica, che fui indicato, in “quota Margherita”, come relatore sulla forma partito al Convegno Orvieto dell’ottobre 2006. Prima di allora non ci eravamo mai incontrati e Soro nemmeno era certo che io fossi un elettore DL. Da allora lo scambio di idee tra noi è stato abbastanza continuo e anche alcune delle proposte che ho avanzato a Orvieto sono state messe alla prova in conversazioni fatte nel suo studio in Sant’Andrea delle Fratte. Abbiamo poi collaborato nella fase della redazione del Manifesto del PD e nell’elaborazione delle regole per le elezioni del 14 ottobre 2007.
Spesso ci siamo trovati d’accordo e devo ammettere che, prima di conoscerlo personalmente, non me lo sarei aspettato: per un mio pregiudizio, forse fondato, verso l’approccio al processo unitario tenuto, almeno fino alle primarie del 2005, dalla componente popolare e dal segretario della Margherita. Dopotutto, la costruzione dell’Ulivo e poi del PD è stata fatta anche di questo: della dialettica, talvolta aspra, tra “ulivisti” pienamente identificati con l’approdo piuttosto che con i partiti allora esistenti, spesso estranei alla politica professionale, liberi di prendere posizioni intransigenti sulla novità che il progetto unitario avrebbe dovuto rappresentare, e dirigenti di partito ben radicati nella tradizioni DS e DL, che si sono presi la responsabilità di trasportare le eredità più pesanti nell’impresa comune. Sta di fatto, per tornare alle ragioni dell’incipit, che sono così diventato un testimone privilegiato delle svolte documentate negli interventi raccolti in questo volume e uno degli interlocutori dell’autore sul tema di fondo di cui sono intessuti.

Il primo intervento, scritto all’indomani delle elezioni, indica quale sia il tema, la missione a cui in molti ci siamo dedicati nell’anno e mezzo che è seguito. <<Gli elettori hanno indicato, con una chiarezza che non lascia adito ad interpretazioni, quale debba essere l’approdo di questa nostra lunga transizione, per dare alla politica italiana un soggetto che abbia la forza di fare scelte difficili e che sappia governare una società competitiva e solidale. Si tratta di una forza che nessuno nella coalizione del centrosinistra può avere da solo, una forza che sappia dare stabilità alla democrazia bipolare, sottraendola alla deriva personalistica e populista, che costituisce il tarlo delle moderne democrazie occidentali>> (maggio 2006). L’ultimo, scritto all’indomani delle elezioni del 14 ottobre, registra che una tappa fondamentale del percorso è stata compiuta. Nel mezzo, ci sono proposizione impegnative su cosa il Pd dovrebbe essere: non <<l’evoluzione di due partiti ma […] la nascita di una nuova storia, in termini di chiara ed esplicita discontinuità>> (aprile 2007). Un partito laico, che eviti <<il rischio di una lacerante contrapposizione tra forme diverse e speculari di integralismo e intolleranza, tra alfieri intransigenti di inconciliabili bandiere, gli uni e gli altri indifferenti alla prospettiva della mediazione politica, alla ricerca di soluzioni condivise>> (gennaio 2007). Un partito che nasce con la vocazione di dare compimento alla transizione in senso bipolare della democrazia italiana e che pertanto è impegnato a “consolidare il sistema bipolare per regolare la democrazia dell’alternanza” attraverso un sistema elettorale che promuova <<governi stabili di legislatura […] chiaramente proposti al cittadino arbitro e da questo esplicitamente scelti>> nella consapevolezza che <<la difesa delle identità politiche dei partiti non debba coincidere con una patologia frammentazione>> (gennaio 2007). Un partito che si impegna a sanare <<l’incapacità ossificata delle istituzioni a produrre decisioni, a interloquire con gli altri poteri in tempi e linguaggi adeguati>>, rispondendo in questo modo, costruttivamente, alla sfida del <<qualunquismo e dell’antipolitica>> (settembre 2007). E che, in un sistema istituzione più efficiente, sia in grado di praticare una politica di riforme: <<esaltando i fattori di vantaggio competitivo del nostro Paese a partire dal territorio, dalla sue specialità e dai suoi talenti, dalla cultura; investendo nel merito e nella mobilità sociale; riducendo rendite e privilegi; e assieme puntando a conservare ed esaltare gli elementi di coesione che costituisco il tessuto connettivo del nostro Paese>> (luglio 2006).

Abbiamo fatto un bel pezzo di strada, su questo sentiero, nell’anno e mezzo di cui riferiscono gli “appunti” di Soro. Il 14 ottobre potrebbe essere davvero iniziata una nuova stagione per la politica italiana. Sono state archiviate in materia definitiva  le fratture (e anomalie) ideologiche della prima Repubblica, ponendo potenzialmente le premesse per un nuovo bipolarismo, imperniato sulla competizione tra grandi partiti a vocazione maggioritaria. Si è inoltre scoperto che il successo delle primarie del 2005 non fu solo dovuto al particolare stato d’animo degli elettori di centrosinistra sul finire della legislatura berlusconiana. Il 14 ottobre ha votato infatti un numero di persone sostanzialmente pari alla componente ulivista dell’Unione che nel 2005 votò per Prodi. Si è dimostrata vera quindi la teoria secondo cui esiste una quota assai ampia di cittadini politicamente sensibili, sostenitori dell’Ulivo, disposti “a prendere parte” ogni volta che gli si chieda di contribuire a una scelta cruciale. Stavolta hanno detto che intravedono nel progetto unitario del Pd, e nella leadership di Walter Veltroni, una possibile via di uscita dal momento avverso che il centrosinistro sta attraversando. Dopo il 14 ottobre, pochi potranno negare che sia stato giusto far nascere il Pd in questo modo, attraverso una larga consultazione popolare, piuttosto che con un congresso prefabbricato per quote, come qualcuno avrebbe preferito ai tempi del Convegno Orvieto. E’ stato giusto far coincidere l’elezione della costituente e del leader, al contrario di quanto aveva inizialmente deciso il Comitato dei 45. Ed è stato cruciale che Walter Veltroni, superando comprensibili resistenze, si sia messo in gioco per portare a compimento l’impresa. Grazie a queste tre scelte, il Pd può oggi invertire la tendenza che vede il governo e la componente riformista dell’Unione in calo nell’immagine pubblica.

Ma, va detto, il pezzo di strada rapidamente percorso dal 2006 a oggi lo abbiamo fatto con un enorme ritardo, pagato dal centrosinistra e dai cittadini italiani. Abbiamo sprecato quasi tutti i dieci anni che vanno dal 1997 al 2007. Il Pd sarebbe dovuto nascere con il primo governo Prodi e non con il secondo! Sarebbe stato possibile che dopo il tradimento della sinistra radicale si fosse tirato dritto con coerenza sulla strada della democrazia maggioritaria e dell’Ulivo, e non si fosse invece puntato sulle manovre parlamentari e sulla strategia “marciare divisi”, tra Ds e Dl per contarsi e contare.

Una tentazione che è ritornata più volte negli anni successivi. Ma si intende che oggi è assai più proficuo guardare avanti: ai problemi che il Pd dovrà affrontare per reggere le attese che ha alimentato, ovvero di essere un partito aperto, plurale, per la democrazia governante. Ce ne sono almeno due che merito a mio avvio d’essere considerati. Il primo riguarda la democrazia interna. Il secondo riguarda il sistema elettorale, e cioè la principale condizione esterna affinché il Pd possa esprimere a pieno la sua “vocazione maggioritaria”.

Personalmente trovo che il dibattito sul <<partito senza tessere>> sia stato posto in maniera fuorviante, ma in effetti coglie un nodo. Per varie ragioni, antiche e recenti, l’iscrizione a un partito viene considerata da molte persone con fastidio. E’ una barriera alla partecipazione. Tanto che alcuni milioni di persone indisponibili a “prendere la tessera” – un atto che non comporta particolari obblighi e la cui riservatezza è tutelata per legge – sono stati ben lieti di compiere gesti politicamente assai più impegnativi come partecipare in luoghi pubblici a primarie o a elezioni interne di partito. Proprio per questo il Pd è nato invertendo il tradizionale principio per cui prima ci si iscrive e poi, eventualmente, si partecipa. Se lo statuto del Pd sarà fedele all’imprinting, come Veltroni ha sostenuto con enfasi nel suo discorso inaugurale all’assemblea di Milano, le tessere dovranno servire, eventualmente, a riconoscere chi, come i volontari delle feste o il sottoscritto, all’attitudine a investire gratuitamente parte del suo tempo per la politica, oltre a chi la politica la pratica per professione. D’altro canto, una componente associativa è necessaria per sorvegliare il rispetto delle norme statutarie. Non ne ha bisogno solo un partito “del leader” come Forta Italia. Noi ci aspettiamo invece che nel Pd il rispetto delle “poche e chiare” regole interne sia rigoroso. L’esistenza di un corpo di associati, attivi con una certa continuità, è una garanzia di cui non ci possiamo privare. Acquisito che le decisioni rilevanti nel “partito aperto” le prendono tutti i sostenitori, quello della tessera è un problema falso o comunque minore. Nel senso che la tessera verrebbe privata di tutte le implicazioni negative e le degenerazione che in passato ha alimentato.

Più rilevanti sono i nodi evocati con l’immagine (infelice) del “partito liquido” se tutti i sostenitori eleggono i leader, fino a che punto questi ultimi devono poi essere condizionati da altri capi, capetti e baroni? E come si fa, d’altro canto, a costruire, per via democratica, un partito a vocazione maggioritaria, con una leadership forte, senza dare al leader poteri che rendono la sua posizione non contenibile? I primi passi del Pd hanno dato, da questo punto di vista, un saggio di nuovi equilibri prodotti dall’elezione diretta del segretario ma hanno anche segnalato alcuni problemi. Per affermare il suo ruolo, Veltroni ha fatto piccole forzature, su più fronti, scontentando di volta in volta segmenti diversi del nuovo partito riunito. Ha indicato alcune priorità per l’azione di governo, ma a dire il vero non ha forzato più di tanto la mano a Romano Prodi, come alcuni temevano e continuano a dire, perché oggi oggettivo interesse comune è giocare di sponda. Ha dato invece visibilmente a intendere agli ex leader Ds-Dl e “aspiranti baroni” che non sarà un primus inter pares . Ha nominato Franceschini suo vice, togliendo ogni residua speranza a chi aveva interpretato le elezioni del 14 ottobre come una sfida per il secondo posto. Ha scontentato qualcuno nella composizione delle commissioni costituite all’Assemblea di Milano, ma non Bindi eletta che hanno partecipato alla nomina. Ha chiarito che la gestione finanziaria del Pd sarà affidato a un suo fiduciario, e sarà quindi indipendente dai tesorieri di Ds e Dl. Alcuni di questi strappi potevano forse essere presentati in maniera più elegante, ma nella sostanza hanno tutti una giustificazione. Altri possono creare invece dubbi legittimi di un’eccessiva “liquidità”, intesa come evanescenza dei meccanismi interni di rappresentanza e controllo. Il regolamento per il 14 ottobre prevedeva che entro il 31 dicembre ci sarebbe stata l'”elezione delle Assemblee provinciali e dei Segretari provinciali”. Il dispositivo finale dell’Assemblea di Milano, letto rapidamente e affidato a una davvero sommaria approvazione dei delegati, dice invece che i “coordinatori provinciali” verranno scelti da gruppi di costituenti nazionali e regionali, in larga parte espressione dei vincitori del 14 ottobre, riuniti in conclave. Questa scelta è in effetti compatibile con la visione del Pd evocata da Veltroni a Milano, di un partito aperto ma non liquido, solo se serve ad azzerare lo status quo ante il più in fretta possibile e solo se è una soluzione transitoria di brevissimo corso.

Il secondo nodo cruciale riguarda la riforma del sistema elettorale. Un ritorno a un sistema proporzionale pure con o senza sbarramenti, sarebbe in aperto conflitto con la vocazione maggioritaria del Pd, con la sua ambizione a ridare all’Italia governi e stabili. Il modello tedesco è da questo punto di vista una tentazione guidata da interessi inconfessabili e prospettivi di corto respiro. Al Pd e alla democrazia italiana serve invece un sistema che non costringa a formare coalizioni posticce, ma stabilizzi la dinamica bipolare intorno a due grandi partiti, premiando quelli che si aggregano e penalizzando quelli che al massimo sono disposti a imbastire cartelli elettorali.

Va detto però che l’attuale dibattito è eccessivamente focalizzato sui (e polarizzato tra) modelli già esistenti. Si è inceppato nella contrapposizione tra sostenitori dei sistemi francese, spagnolo o tedesco. Si tratta invece, come ha detto anche Veltroni nella sua relazione inaugurale all’Assemblea di Milano di Ottobre, di ripartire dagli obiettivi di fondo su cui molti, se non tutti, almeno a parole concordano. Abbiamo bisogno di un sistema elettorale che consenta agli elettori di giudicare la qualità dei singoli candidati al Parlamento; che riduca la frammentazione, garantendo però un pluripartitismo moderato; che preservi la dinamica bipolare senza rendere però ineluttabile la formazione di coalizioni pre-elettorali artificiose, prive di coesione programmatica.

Per ottenere questi risultati occorre trovare un sistema alternativo sia al premio di maggioranza (che o è irrilevante e non bipolarizza, o induce alla formazione di coalizioni posticce) sia al collegio uninominale maggioritario, a uno o due turni, il quale, alternativamente, a seconda di come viene interpretato, riduce troppo drasticamente il pluralismo o induce anch’esso a formare coalizioni eterogenee, prive di coesione programmatica, come accadeva con i collegi uninominali della Mattarella. Serve pertanto un sistema elettorale misto, a prevalenza proporzionale (in questo senso simile al tedesco) che però non “fotografi” perfettamente il peso elettorale di tutti i partiti sopra una certa soglia, stabilita per legge, cosa che metterebbe in crisi il bipolarismo e che renderebbe ineluttabili coalizioni ancora più eterogenee di quelle attuali, per di più non vincolate da un accordo pre-elettorale. Un accordo che nella pratica, si giustifica ed è realmente vincolante solo in presenza di un qualche premio di maggioranza o di un meccanismo maggioritario secco. Serve un sistema elettorale che consenta una rappresentanza autonoma anche ai partiti minori (quelli che superino una soglia minima, non molto elevata, non prevista formalmente dalla legge, ma definita implicitamente dal meccanismo elettorale) e che al tempo stesso premi (implicitamente, senza forzare la ripartizione dei seggi con premi dati in blocco, in maniera automatica) chi accetta di giocare la propria autonomia in grandi partiti a vocazione maggioritaria.

Partiti che si propongono come “aggregatori” di maggioranze alternative (come baricentro di ciascun polo) e che non si preparino (o siano costretti) a formare “grandi coalizioni” (inevitabilmente più eterogenee e conflittuali di quelle attuali).

Il fatto che ci siano due grandi partiti tra loro chiaramente alternativi, ancorché collocati in posizione moderata (moderatamente a “sinistra” o a “destra del centro”), è una garanzia anche per i partiti minori collocati su posizioni più estreme di non essere sistematicamente estromessi dal governo da maggioranze centriste. Anche piccoli partiti “di centro” possono mantenere con il modello proposto un certo potere negoziale, ma non possono pretendere di diventare il motore immobile del sistema. Le soluzioni tecniche per ottenere questi obiettivi esistono. Che ci siano anche le condizioni per un accordo parlamentare è difficile dirlo. Nell’augurargli buon lavoro per il nuovo incarico di capogruppo alla Camera del Pd-Ulivo, possiamo solo auspicare che Soro metta la sua determinazione e la sua capacità di dialogo anche al servizio di questa causa.

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