Recuperare un patrimonio dissipato

Camera dei Deputati, 07/07/1999

 

Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, esiste un nesso che lega questo dibattito – e il discorso che lo ha introdotto – al passaggio elettorale per le elezioni del Parlamento europeo e per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali.
Credo che sia onesto riconoscere che, al di là della questione delle cifre, che pure può essere opinabile, la maggioranza di governo non è stata premiata dalla prova elettorale del mese scorso. Il voto di giugno ha segnato – e sarebbe un errore negarlo – una difficoltà vera nel rapporto di fiducia tra questa maggioranza e i cittadini. Noi abbiamo il dovere di comprenderne le ragioni, e la responsabilità di rispondere con un’offerta di governo forte e persuasiva.
Il Presidente ha ricordato con puntiglio i risultati conseguiti in questi anni dal nostro paese. Sarebbe ingeneroso attenuarne la portata o ridurne gli effetti sul nostro sistema economico e sociale e sul complesso delle relazioni internazionali. Tuttavia, siamo consapevoli che esistono questioni non risolte, intorno alle quali dovremo misurare la nostra cultura riformista, insieme alla nostra volontà di concretezza.
Esiste ancora un’indiscutibile divaricazione fra la quantità e la qualità delle azioni di governo e l’andamento della nostra economia, l’intensità degli investimenti, l’orientamento delle imprese e delle famiglie. La crescita della ricchezza nazionale è molto più lenta rispetto alle nostre attese – e alle sue attese, signor Presidente – e la competitività del sistema economico italiano decresce in proporzione alla minore capacità di innovazione e alla più bassa produttività: come in un circolo vizioso, i minori investimenti producono un impoverimento del sistema, che rischia di perdere posizioni sia nel mercato interno, sia in quello internazionale.
La modesta crescita economica produce un minore gettito fiscale, solo in parte compensato dai buoni risultati della lotta all’evasione fiscale, che pure ha davanti a sé ancora grandi potenzialità di espansione. Se lo sviluppo non trova ritmi più sostenuti, i timidi segnali di ripresa dell’occupazione non avranno seguito. Per questo occorre rimuovere tutti i fattori che rallentano la crescita ed essere seri e rigorosi nel giudizio.
Nessuno può onestamente negare che l’azione del governo sia stata intensa e operosa. Penso ai provvedimenti seri e forti per la sicurezza dei cittadini, alle iniziative di riforma del sistema giudiziario, alle prime concrete attuazioni del patto sociale, alla nuova politica di sgravi fiscali orientati alla produzione, alla super-DIT, alle misure per incoraggiare il rinnovamento del nostro patrimonio edilizio; penso al nuovo flusso di investimenti per le infrastrutture, di risorse per il Mezzogiorno, attraverso la legge 488, alla decretazione di nuovi strumenti della programmazione negoziata. È un insieme di misure che avrebbe in astratto fatto pensare a una crescita più intensa degli investimenti e della ricchezza. Il tutto in un contesto di bassa inflazione, con i vantaggi dell’Euro, con il credito finalmente accessibile per le imprese e per le famiglie. Eppure tutto questo non ha innescato il meccanismo virtuoso del nuovo sviluppo di ricchezza e consumi.
Immagino che dietro questa indiscutibile ritrosia delle imprese a fare investimenti vi siano molte ragioni; ma una – forse la più importante – ha a che fare con la nostra responsabilità, con la responsabilità del Parlamento, del governo, della politica. La politica non ha generato, in questa fase, un clima di sicurezza e di stabilità. Abbiamo, parlo della maggioranza ma non ci solleva la coscienza l’idea che l’opposizione abbia altrettanti problemi, nell’ultimo anno operato una corsa sfrenata alle divisioni, all’esaltazione di tutto ciò che ci distingue, che esprime le nostre radici, anche quelle lontane che pensavamo ormai dimenticate. È stata una corsa alla frammentazione e alla dissipazione di quel patrimonio di straordinaria coesione politica che ha caratterizzato i primi anni di questa legislatura. Il paese ha faticato e fatica a seguirci.
L’onorevole D’Alema ha posto il problema di una nuova definizione della maggioranza e della coalizione dentro l’orizzonte di un sistema maggioritario e bipolare, nel profilo di un disegno generale nel quale possano riconoscersi le diverse identità politiche e culturali che vivono nel centro sinistra italiano. Noi Popolari siamo partecipi di questa volontà e giudichiamo il discorso del presidente del Consiglio la premessa essenziale sulla quale costruire una fase nuova di questa legislatura, in un quadro di stabilità e fiducia reciproca. Pensiamo che si debba ritrovare l’orgoglio di una sfida alta ed impegnativa per guidare il cambiamento della società italiana dentro i confini della democrazia e della libertà, vincendo quelle spaventose pulsioni verso le derive illiberali che il virus dell’insicurezza di questo nostro tempo ha generato e rischia ancora di generare.
Di fronte agli scenari del nuovo millennio non sono più sufficienti le vecchie dottrine che hanno alimentato la politica e la cultura del secolo breve che ci lasciamo alle spalle. Per questo sono apparse in tutta la loro vacuità le polemiche che hanno accompagnato la recente campagna elettorale. Abbiamo sentito una nuova, e forse meno sincera, riproposizione di antiche divisioni, di scontri anacronistici fra avversari e spesso nemici di bandiere ormai ammainate.
È davvero straordinario come un paese che partecipa concretamente delle sfide della modernità, che guida processi dell’economia e della cultura in ogni angolo del pianeta, si appassioni, come in una fiction televisiva, allo scontro tra comunisti e anticomunisti, tra guelfi e ghibellini.
Penso che dovremmo fare un grande sforzo di innovazione politica per concludere questa infinita transizione italiana, per trovare stabilmente forme e contenuti di una nuova stagione della democrazia nel nostro paese. Noi Popolari avvertiamo l’impegno a corrispondere alla domanda di governo che viene dai cittadini, mettendoci in discussione, affrontando francamente le nostre responsabilità, pensando il futuro della politica come una opportunità da non dissipare. Dobbiamo ritrovare il senso di una politica che allarghi i diritti di cittadinanza e che difenda i valori della libertà. Sarà questo dibattito, insieme al confronto politico e parlamentare delle prossime settimane, l’occasione per ritrovare i molti punti che uniscono i riformisti italiani.
In particolare, vorrei ricordare un elemento fondamentale da inscrivere nell’agenda di governo. Il nostro tempo è segnato da processi di mutazione rapidissima dentro e tra i vecchi aggregati sociali: è cresciuta la disuguaglianza e viene fortemente alterato il valore della coesione sociale, inteso come un bene comune. Esistono gruppi sociali in declino: quel terzo di popolazione che negli ultimi dieci anni ha visto costantemente calare i propri redditi reali. In questi gruppi, in queste famiglie è diffuso un sentimento di apprensione crescente perché si avverte che il rischio di transitare nella fascia di povertà non è remoto.
Per converso, la politica di soddisfacimento effimero e talvolta demagogico dei settori più deboli, inclusi nel sistema delle garanzie, rischia di rendere sempre più larga la fascia degli esclusi, soprattutto tra i giovani. Qui sta la difficoltà, la sfida, la contraddizione di questo nostro tempo; qui sta la difficoltà del governo di questo nostro paese.
Poniamo la questione della rimodulazione della spesa sociale, non per liberare risorse utili ad altri fini – a questo ci opporremmo con tutte le nostre forze: la spesa sociale italiana non è alta, anzi è più bassa di quella media europea. Se esistono – ed esistono – dinamiche interne al sistema previdenziale generatrici di squilibri nel futuro, abbiamo il dovere di occuparcene e farlo da subito. Potremmo scandire i tempi della correzione nel rispetto di accordi e intese con le parti sociali, ma non possiamo rinunciare a un confronto serio in questa sede, con un dibattito che riteniamo prevalente rispetto a tutti gli altri. Dovremo farlo con sobrietà, ma anche con molto coraggio.
Esiste una fascia di italiani che hanno meno di quarant’anni sostanzialmente esclusa dal nostro sistema di sicurezza sociale: si tratta di individui che non lavorano o cominciano a lavorare molto tardi, con contratti di lavoro atipico. L’attesa previdenziale di questi giovani è debole o non esiste. Signor presidente del Consiglio, pensiamo che questa generazione debba essere un riferimento ineludibile nell’azione di governo e nell’attività legislativa. In questa prospettiva, dovremo conservare ogni spazio per ricercare il consenso dei sindacati. Sono convinto che nelle prossime settimane il governo troverà il modo di diradare incomprensioni e rigidità; ma va detto, con assoluta chiarezza, che la concertazione cresce meglio se vengono abbandonati i toni ultimativi e le esibizioni muscolari. Anche i sindacati, come le forze politiche, vivono una fase di profonda trasformazione dei meccanismi che regolano il consenso e conferiscono legittimazione. Sarebbe un errore imperdonabile se questo aspetto dovesse essere sottovalutato dalle dirigenze sindacali.
Signor presidente del Consiglio, abbiamo sentito dalle sue parole su questo tema un segno di coraggio: per questa ragione – soprattutto per questa ragione – e per l’insieme del suo discorso e della sua replica, le rinnoviamo le ragioni della nostra fiducia.

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