Un patto per la Sardegna

L’Ortobene, 1/09/1993

 

Non è senza fondamento l’idea che la Sardegna partecipi con scarsa passione ai processi di rinnovamento del sistema politico.
E’ probabile che il generale e diffuso sentimento di insoddisfazione per le condizioni sociali ed economiche (un sentimento più rancoroso di quanto non si avverta in altre realtà altrettanto svantaggiate) finisca per comprimere la carica di creatività e gli slanci di utopia che altrove si manifestano con più nettezza di carattere.
certamente visibile il contrasto tra l’acutezza della crisi economica, la tensione sociale, la dissoluzione lenta della consapevolezza autonomistica e il paludoso silenzio della politica.
L’imminenza di una primavera elettorale (copiosamente elettorale) dovrebbe però costringere tutti ad un più attivo esercizio di proposta.
I partiti vivono nel limbo della transizione: molti protagonisti sono scomparsi ma tanti altri si muovono, con lentezza di gesti e di parole, come una irreale riproposizione di un vecchio fotogramma.
Gli organi locali e regionali dei partiti politici – per quello che si può conoscere – sanno di stantio e vengono quotidianamente delegittimati dagli stessi responsabili.
Fa eccezione il PDS, compatto nel difendere la sua diversità antropologica e nell’esaltare la propria indivisibile centralità. Molti veli sul passato, nessun dubbio sul futuro. Esperti per storia di partito e personale nella pratica del riciclaggio, accusano e sospettano tutti gli interlocutori di volersi riciclare.
Il trasformismo peraltro è una costante ambientale, nella quale troppi vorrebbero mimetizzarsi.
L’unica dimensione della politica partecipato (direi affollata) è quella esclamativa, di denuncia, del confronto rivolto al passato.
Il problema riguarda in misura per niente marginale la Democrazia Cristiana.
il ritmo di Martinazzoli è diventato eccessivamente prudente, condizionato dall’ambizione di salvare tutto: invece sarà ineluttabile perdere qualcosa.
In Sardegna non si vedono segni del nuovo soggetto politico che si chiamerà Partito Popolare: da molto tempo è in corso un assurdo gioco di surplace; dove tutti aspettano che qualcuno faccia il primo passo.
La vecchia dirigenza non coglie le dimensioni del proprio ingombro e considera offensiva l’idea di una visibile discontinuità tra la Democrazia Cristiana e il Partito Popolare.
Spero di sbagliare quando sospetto che fra Ceppaloni e Lavorone la vecchia guardia della DC sarda si trovi a suo agio soprattutto con la prima.
E invece il futuro del Partito Popolare può esistere solo in quanto ancorato alla migliore tradizione del cattolicesimo democratico e riformista.
Ora mi pare sia tempo di governo, di risposte alle domande di cambiamento che vadano oltre l’elenco delle esigenze.
In questo contesto un ruolo positivo può essere svolto da Alleanza Democratica, ove manifesti le sue ambizioni vere: purché non abbia la pretesa di essere un partito ma piuttosto un luogo di promozione e di accelerazione del rinnovamento.
Speculare a questa opportunità si colloca l’esigenza di un arretramento dei partiti rispetto alla pretesa, ordinariamente legittima, di selezionare la nuova classe dirigente, i nuovi governi.
Nella congiuntura straordinaria di questo tempo politico l’iniziativa potrebbe essere più delle persone che dei partiti, al di fuori degli schemi consueti: in un rapporto con i cittadini che salti la mediazione delle burocrazie interne, di organismi informati a regole e politiche non più riproducibili.
Ci vorrebbe un patto tra persone che abbiano affidabilità reciproca, che avvertano comune sensibilità e comune volontà analoga a quella del movimento e del patto che innescò la politica delle Riforme: con la differenza che l’obiettivo ora non è solo istituzionale, ma politico.
Un patto per il governo della Sardegna che ricerchi il consenso dei cittadini in una competizione aperta e trasparente.
E bisogna definire, delimitare i termini entro i quali può essere costruita questa iniziativa.
Non bastano i requisiti dell’onestà e della novità: sono queste condizioni prepolitiche, indispensabili ma insufficienti.
Si può essere onesti e incompetenti, onesti e fascisti, onesti e comunisti. Vale la pena di individuare con chiarezza i contorni di un progetto per la Sardegna, nel senso che abbiamo in più occasioni auspicato, nel segno di una moderna saldatura tra sviluppo e solidarietà, sulla frontiera di un nuovo autonomismo capace di collegarsi con l’Europa e con il Mediterraneo.
Un progetto che sappia esaltare i valori della nostra identità costruendo su questi, sulla qualità Sardegna le ragioni di un nuovo forte protagonismo nelle relazioni della nostra economia.
Un disegno che coinvolga la partecipazione dei cittadini sordi, modificando nel profondo i meccanismi di funzionamento della
Regione, introducendo clementi di vero dinamismo nella struttura burocratica, eliminando tutte le nicchie di parassitismo stratificate nel corso della sua storia.
Vale la pena di definire le cose che si vogliono fare: ma non basta il tradizionale consenso protocollare sui programmi.
Quando proponiamo un patto fra persone che abbiano reciproca affidabilità intendiamo riferirci alla verificata coerenza tra idee e comportamento: le biografie non sono indifferenti né indistinte.
E infine i partiti non cessano dalla loro Funzione in questa prospettiva: se convergono sul progetto possono addirittura trovare un’occasione irripetibile per attuare con determinazione il cambiamento che occorre, per riprendere il posto che si conviene in una democrazia moderna che ha scelto il sistema uninoininale.
Forse molti critici di questa ipotesi dimenticano quanti guai abbia prodotto la dilatazione del ruolo dei partiti negli anni passati: oggi serve qualche rinuncia perché possa rinascere un nesso di fiducia tra cittadini e istituzioni. Per questo mi pare anacronistico la proposta dell’onorevole Macciotta che vorrebbe ricomporre un cartello di sigle e bandierine nel segno di una vecchia sinistra.

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