Voto segreto e maggioranza di Governo

Consiglio regionale, 26/10/1990

Si è detto che nel confronto di questi giorni la maggioranza avrebbe in qualche modo evitato la discussione e il confronto. Io credo che questo non sia vero, perché noi abbiamo deciso di affidare ai contenuti delle nostre valutazioni il segno della nostra partecipazione e del nostro interesse assai più che al numero degli interventi.

Abbiamo voluto questa riunione del Consiglio regionale, (l’abbiamo richiesta noi consiglieri della maggioranza) per esprimere compiutamente, in assoluta trasparenza, il giudizio sullo stato dei rapporti politici che presiedono all’attività del governo regionale. Noi non abbiamo mai pensato che fosse venuta meno la condizione di legittimazione formale e sostanziale all’esercizio delle funzioni di questa Giunta, ma è comprensibile che l’opposizione eserciti il suo diritto di critica e che colga ogni occasione per confermare il suo giudizio negativo sull’attuale equilibrio dei rapporti politici.

Mi sarà consentito di notare che l’abitudine allo schematismo, ai luogo comune, alla reiterazione dello stesso giudizio spesso non aiuta a capire lo spessore e la qualità della crisi che le trasformazioni politiche e sociali hanno acuito. E’ riaffiorata più volte, in questi giorni, l’idea che in una situazione di crisi generale tutto andrebbe a posto se la Democrazia Cristiana fosse posta in minoranza. Mi sembra un modo vecchio e contraddetto dall’esperienza che noi abbiamo fatto: tuttavia, l’opposizione sceglie gli argomenti che vuole e noi portiamo comunque rispetto per le vostre opinioni. Ma esiste un terreno del confronto politico che andrebbe salvaguardato. Si è sostenuto molte volte che una delle due espressioni di voto, peraltro contraddittorie, manifestate nel Consiglio regionale la settimana scorsa, avrebbe rappresentato una sfiducia alla Giunta, un giudizio inappellabile del Consiglio nella sua sovranità. I colleghi Mannoni, Onnis, Merella, Baroschi hanno compiutamente espresso le valutazioni che noi abbiamo dato in merito a quell’episodio. Io non mi soffermerò a portare altri argomenti.

Tuttavia mi preoccupa, e ci si preoccupa, se consapevole e deliberato, l’orientamento assolutamente involutivo che sembra affiorare nel gruppo del Partito comunista. Si è in questi giorni avvalorata la congettura secondo la quale esisterebbe un presunto primato del voto segreto come espressivo di un giudizio più veritiero, più rispondente agli orientamenti di un libero Consiglio mentre il voto palese sarebbe espressione di scontata finzione, coercitivamente imposta dalle gerarchie dei partiti.

Io vedo i rischi di questo ragionamento, non solo perché si arretra pericolosamente sul terreno di un regolamento che abbiamo considerato patrimonio comune, ma perché rischiamo di legittimare come più giusti e veritieri i rapporti e contratti occulti e trasversali, le pratiche di scambio meno nobile, le rendite paralizzanti che qualsiasi minoranza interna alle coalizioni di governo potrebbe esercitare. Ci siamo detti tante volte che il nostro sistema politico ha bisogno di riforme che riducano lo spessore delle stratificazioni che mettono il corpo politico delegato al riparo dai controlli, dalle valutazioni della società delegante. Appare in verità paradossale, contraddittoria e incomprensibile l’incoerenza di chi vorrebbe riproporre il voto segreto come più autentico e veritiero. Ma, al di là del problema di metodo e di regola, esiste il problema politico: si è messa in discussione la tenuta di questa coalizione. Ma davvero era lecito pensare che una pattuglia di franchi tiratori potesse far cessare gli elementi di coesione di questa maggioranza e per di più farne nascere una diversa e alternativa?

Appare patetico il tentativo di proporre e questo itinerario da parte di un gruppo che pure annovera uomini finora apprezzati per cultura di governo e senso delle istituzioni. E ancora più patetico è il tentativo di produrre un blocco di tutte le attività istituzionali, cercando una qualche copertura formale a iniziative politiche e poi di seguito una copertura politica a rilievi di procedura. Mi sembra che sia smarrita la bussola, che tutto questo non giovi a nessuno, neanche all’opposizione. In realtà questa coalizione esce da questo dibattito più forte, nella consapevolezza largamente espressa delle ragioni che rendono l’attuale maggioranza come la più idonea a governare la società sarda in questa stagione della nostra Autonomia.

Stagione difficile e densa di ostacoli vecchi e nuovi al dispiegarsi dello sviluppo e della modernizzazione di una economia svantaggiata e insieme ricca di tensioni e tendenze che rischiano di cancellare le radici più fonde della nostra identità di popoio e quindi le stesse basi etniche e culturali del nostro ordinamento speciale.

Le tendenze di una generale recessione del nostro sistema economico e la ricomparsa del fenomeno inflattivo segnalano come più acuta la crisi del nostro modello di sviluppo regionale, fondato sui trasferimenti e sui consumi.
La debolezza strutturale del nostro sistema produttivo viene in qualche modo fotografata dall’andamento delle due variabili maggiormente critiche: gli investimenti e il saldo commerciale. I primi sono in costante declino da circa dieci anni, la seconda in costante aumento. La combinazione di questi due elementi impedisce uno sviluppo del nostro sistema. La base produttiva conserva le sue dimensioni anguste e fatica a mantenere una qualche modesta tendenza espansiva. Le imprese a capitale locale sono poche e dai destini incerti. Il tasso di natalità delle imprese conserva alcuni segni positivi di animazione ma la vitalità delle stesse imprese, alla verifica del tempo, appare ancora debole. Le imprese a capitale esterno – ce lo siamo detti tante volte – hanno un rapporto assai limitato col territorio e la questione occupazionale è ancora drammatica. Noi non vogliamo indossare, solo perché esponenti della maggioranza, gli occhiali rosa per sfumare i contorni di un’emergenza che conserva intatta la sua carica esplosiva di tensioni e di cocente peso sulle qualità di vita dei sardi.

La durezza con cui esprimiamo le nostre valutazioni e le nostre analisi non vuole significare che nulla in questi anni si è modificato. Io do per scontati i numerosi traguardi conseguiti dalla società sarda e dalla sua economia. Il problema è di misurare la velocità con cui si muove l’insieme della società sarda, della sua organizzazione economica rispetto ai tempi con i quali viaggia il mondo, la società che è diventata un universo immediatamente percettibile nelle sue indicazioni, negli effetti che i cambiamenti velocissimi che si verificano nel mondo esercitano nella nostra vita di tutti i giorni. E allora dobbiamo convenire che i caratteri strutturali della nostra economia non hanno subito sostanziali evoluzioni in una congiuntura particolarmente sfavorevole dell’economia nazionale nella quale ha vissuto il suo primo anno l’esperienza della Giunta Floris: la crisi della chimica, la dilatazione delle regioni assistite dalla politica comunitaria, l’esplosione della questione del Golfo, fino all’avvio di una severa manovra di risanamento del bilancio nazionale, il contesto politico-culturale di un allentamento della tensione meridionalista e regionalista, l’esplosione più vicina di vecchie e nuove tensioni del mondo agricolo sardo.

Sono questi gli elementi che connotano il contesto di riferimento del nostro confronto e sono la premessa per costruirvi sopra un’offerta di governo. Io credo che siano considerazioni largamente condivise perché le abbiamo espresse in altre occasioni di dibattito in questo Consiglio regionale, così come credo che largo sia il consenso che si può registrare e si è registrato in questo Consiglio regionale sulle politiche e sugli indirizzi di politica generale di programmazione. Su queste politiche, nella loro articolazione più puntuale di obiettivi e di metodi, nella loro scansione pluriennale abbiamo iniziato un confronto in quest’Aula e nella società sarda che contiamo di portare a più compiuta definizione. Noi esprimiamo oggi la nostra fiducia alla Giunta regionale non solo perché abbiamo con- diviso gli orientamenti che ne hanno guidato finora l’attività, ma perché rimangono valide le ragioni politiche e di programma che ne hanno condizionato la costituzione e perché ci troviamo insieme alla Giunta impegnati nello snodo delicato e decisivo di un atto di programmazione generale pluriennale al quale affidiamo una parte non marginale delle nostre politiche. Perché attraverso questi atti si possa attivare il disegno di riordino e di governo alla condizione generale dell’economia sarda.
Ma in questa fase due questioni diventano prevalenti su tutte. La prima è quella di ridurre la divaricazione tra programmazione e attuazione dei programmi: è una costante, il tarlo della politica regionale sarda, comune forse a quello dell’insieme delle politiche delle regioni meridionali. I tempi che intercorrono tra l’intuizione, tra la costruzione di un’offerta di governo e la sua attivazione sono storicamente tempi incompatibili anche con la dinamica di una società che fosse anche lenta com’era lenta quella che aveva visto nascere il primo e il secondo piano di rinascita della Sardegna. Ma in una società velocizzata, come questa nella quale noi viviamo, pensare di conservare il divario tra gli atti della programmazione e la loro attivazione è una premessa ineluttabile per la sconfitta.

Noi non possiamo rallentare ulteriormente i tempi delle nostre decisioni, ma oggi rispetto al carico già gravoso di problemi presenti al momento in cui la Giunta ha predisposto il piano generale e gli atti di bilancio, il quadro dei riferimenti sembra velarsi di nuove e ancora più preoccupanti nuvole. E insieme a questa questione, una seconda necessità: quella di resistere alla tentazione di farsi guidare dall’emergenza, di raccogliere gli aopelli che sono diffusamente presenti in tutto il corpo dell’economia sarda per un intervento che, lo si chiami assistenziale o di sostegno, è comunque un intervento per l’emergenza. Dobbiamo ricercare un nesso di composizione tra l’emergenza, il bisogno di attenuare l’impatto drammatico delle calamità sulla nostra economia, di rendere tollerabile la qualità di vita di una generazione in larga parte senza lavoro, con l’esigenza insopprimibile di avviare un processo organico di trasformazione dei caratteri strutturali della nostra economia, investendo risorse per modulare i fattori di convenienza per gli investimenti. La metafora del lenzuolo troppo corto non può essere una condanna alla quale rassegnarci.
Viviamo una stagione terribile in cui sembra verificarsi l’eclissi della solidarietà: per il Mezzogiorno, per i più deboli, per le Regioni. E abbiamo la consapevolezza di quanto sia indebolito l’Istituto della nostra Autonomia regionale. I nostri poteri sono strutturalmente inadeguati a reggere il confronto, lo scontro spesso, l’impatto con i centri della decisione, con l’organizzazione e la potenzialità delle imprese economiche, con la dinamica di una mercato sempre più largo. E allora, le nuvole che si addensano sull’orizzonte della nostra Isola e i segnali delle veloci trasformazioni rendono urgente un adeguamento della dimensione istituzionale, dell’insieme delle regole, del complesso delle relazioni che qualificano la specialità della nostra autonomia. Non per eludere il carico delle responsabilità, delle competenze e dei doveri che attengono alla dimensione dei contenuti del Governo e che gravano per intero sugli organi della Giunta regionale e della maggioranza che la sostiene, ma perché abbiamo la consapevolezza della grandezza dei compiti ai quali siano chiamati e dell’estensione sempre più insopportabile dei vincoli che rendono impotente la nostra Autonomia rispetto alle sfide di un presente tutto carico di emergenze. E allora dobbiamo riscoprire e riaprire un qualche momento di confronto che ci sollevi dal terreno dell’ordinaria e scontata disputa sulle nostre responsabilità e sulle nostre inadeguatezze, e dobbiamo ritrovare una qualche dimensione per dare corpo alle nostre elaborazioni, alle nostre proposte, anche solo alle nostre sensibilità in tema di riforma delle nostre istituzioni.
In questo senso voglio esprimere tutto il nostro apprezzamento per l’iniziativa del Partito Sardo d’Azione in materia di riforma dello Statuto, al di là del giudizio sui singoli contenuti propri di quella iniziativa di legge. Noi consideriamo la proposta un serio contributo per l’apertura di una nuova stagione di confronto sulle riforme. Su questo terreno siamo chiamati tutti a misurarci e forse troveremo la misura per migliorare la qualità dei nostri rapporti politici e rendere meno greve il clima di quest’Aula. Il nostro impegno è volto al recupero della ragione, del giudizio, al rifiuto del luogo comune, del pretesto come termine del dibattito, della logica dello scontro per lo scontro, e della rendita di posizione come elemento del confronto politico. Siamo consapevoli che è difficile sfuggire a questo rischio, e comunque non può essere rimesso solo a una parte. Però noi ci facciamo carico di richiamare la consapevolezza comune, il dato di rischio che incombe sul nostro sistema. Non vorremmo che le nostre reciproche chiusure all’interno di un linguaggio che è sempre più gergo, sempre più inutile e incomprensibile, sempre più distante dalla realtà della gente comune, producano alla fine la consunzione di quel filo sempre più sottile che lega la società sarda all’Istituto dell’Autonomia regionale. E insieme a quel filo va consumandosi drammaticamente il nesso di fiducia nella politica.

Per questo dobbiamo ricercare e allargare gli elementi della nostra solidarietà e insieme porci tutti l’obiettivo di far crescere l’efficacia del sistema autonomistico, per dare risposte ai bisogni della società sarda. Una società densa di manifestazioni di inquietezza, disarmonie, tendenze divaricanti, ma anche ricca di fermenti, di intuizioni, di idealità nuove, di domanda di mutamenti che esigono una nuova moralità collettiva. Esiste una sete inappagata di giustizia, di uguali chances, uguale destino. Noi dobbiamo impedire che questa domanda forte della nostra società possa rivolgersi fuori dall’Autonomia. Questo compito non appartiene solo alla maggioranza ma ci impegna tutti.

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