Una speranza di nome Karzai

24 marzo 2007

La liberazione di Daniele Mastrogiacomo è un risultato che non può essere minimizzato né passare in secondo piano rispetto alle modalità del rilascio. Su questo dobbiamo essere chiari: è stata un’azione positiva del governo che ha consentito di riportare a casa sano e salvo un nostro connazionale in una situazione di straordinaria complessità, visto il deterioramento progressivo sul piano della sicurezza in Afghanistan e nel contesto di una crescente offensiva delle forze NATO.

Penso che nessuno debba sentirsi in colpa perché siamo riusciti a salvare una vita umana.

E davvero risulta quanto mai strumentale e pretestuosa la polemica sulla trattativa che Berlusconi si è affannato a innescare in queste ore. Berlusconi sbaglia. Egli sa bene che in questo caso, e solo in questo caso, non c’è alcuna discontinuità con il suo governo: l’Italia ha sempre cercato varie forme di dialogo e negoziato in ogni circostanza che ha visto suoi concittadini ostaggio in zone di conflitto. Così è stato, ad esempio, per Enzo Baldoni, Giuliana Sgrena, Simona Torretta, Simona Pari e Gabriele Torsello. E lo sanno bene anche Gianni Letta, Gianfranco Fini e chiunque abbia condiviso delicate responsabilità in quei frangenti.

Anche in questi casi abbiamo registrato diverse valutazioni da parte del governo degli Stati Uniti. Così come è stato nel caso Mastrogiacomo.

Ora si può serenamente affermare che il momento di incomprensione con gli americani è alle nostre spalle. Il ministro degli Esteri ha opportunamente chiarito i profili delle conversazioni formali e informali avute con il segretario di Stato Rice, prendendo atto delle diverse valutazioni esistenti sulla opportunità e modalità di negoziare sulla materia ostaggi.

D’Alema ha precisato le responsabilità del governo italiano, di quello afghano e dei mediatori nella vicenda che ha coinvolto Mastrogiacomo. Il nostro ministro degli Esteri ha peraltro confermato che eventuali nuove procedure comuni e nuove regole di comportamento dei membri della coalizione possano essere decise assieme soltanto in sede NATO e non mediante comunicati e commenti anonimi. In ogni caso, nessuna rottura. D’altro canto, gli americani sanno bene quanto sia strategico e decisivo l’apporto italiano in teatri difficili come l’Afghanistan o in altri contesti come il Libano e i Balcani, in cui la nostra azione all’interno di missioni multilaterali si è sempre distinta e si sta distinguendo per la capacità di immergersi nelle situazioni locali con la necessaria autorevolezza ma anche con la flessibilità di dialogo e l’umanità dei nostri militari. Si è discusso molto sul ruolo svolto da Emergency in questa vicenda. Il suo coinvolgimento, vista la indubitabile conoscenza del territorio, ha segnato un punto a favore della trattativa. Appare però un sistema difficilmente replicabile perché altro è il ruolo delle ONG.

Non si può invece correre il rischio di indebolire il governo Karzai, perché sarebbe gravissimo per la stabilità dell’Afghanistan e per gli interessi dell’Italia, della comunità internazionale e del popolo afghano. L’Italia si deve impegnare dunque a rafforzare il più possibile il legame e il sostegno con il governo afghano, dal punto di vista politico, economico e militare. A tal fine, anche la Conferenza di pace deve vedere nel governo di Karzai il perno di ogni possibile evoluzione per la pace in quel paese. In questa occasione la questione più rilevante è il riconoscimento da parte del governo USA che lo sforzo per una conferenza internazionale è un pezzo irrinunciabile di una strategia che non si limiti alle azioni di contrasto militare al terrorismo e alla presenza per un tempo indefinito sul territorio afghano. Altro che rottura.

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