Quando gli insulti ci fanno piacere

5 dicembre 2006

 

La destra è scesa in piazza.

Piazza San Giovanni ci insegna che l’opposizione non ha un disegno politico e una strategia per l’Italia alternativi alle scelte di governo. E tuttavia ci sono almeno tre ragioni per non sottovalutare la manifestazione della ex CISL.

Innanzitutto abbiamo avuto la dimostrazione che la leadership di Berlusconi è talmente radicata e solida da reggere allo stesso suo fallimento nell’azione di governo. Dal palco il Cavaliere ha utilizzato argomenti vecchi e contraddetti nei fatti dall’esperienza della passata legislatura, ma la gente lo ha applaudito. Questa risposta popolare dimostra una fedeltà di appartenenza che è un misto di ideologia, culto della personalità e tutela di interessi da “vecchio” partito tradizionale.

La seconda ragione è il sostanziale assorbimento di una componente dello schieramento di centrodestra nell’orbita berlusconiana: Fini accetta di essere assorbito perché confida di ereditare il diritto di successione.

Terzo, l’esistenza ormai certificata di due opposizioni.
Per noi è un rischio e un’opportunità: un rischio perché allarga l’offerta di opposizione e la sua capacità di attrarre elettori insoddisfatti; un’opportunità perché con l’une si può cercare un terreno di confronto su alcune questioni di merito e lavorare per attrarre forze moderate nell’area di governo.

In sintesi, della giornata di sabato è bene tener conto senza drammatizzare: perché un governo che incide su sprechi e privilegi suscita sempre resistenze e opposizioni; solo chi tira a campare non si fa nemici; ma spingere l’Italia verso il declino, Berlusconi insegna, è molto peggio che prendersi qualche insulto in piazza.

Su cosa debba dunque fare il governo non ho dubbi: proseguire nella direzione già tracciata dal programma dell’Unione e dal DPEF. Ora siamo nel passaggio più difficile, perché dobbiamo pagare gli assegni a vuoto di Tremonti: le opere pubbliche appaltate e non finanziate, l’impegno per il rientro del deficit assunto lasciando a noi il conto da pagare.

E in più abbiamo il paese da rimettere in moto. E anche un bel po’ di consenso da recuperare. Il consenso si recupera con un deciso spirito di squadra: la maggioranza deve interrompere un carosello di distinzioni più enunciate e ostentate che praticate nel Consiglio dei Ministri.

Serve poi un governo guidato con mano sicura nella direzione di marcia stabilita, dando alla Finanziaria un seguito coerente con un’azione di riforma che accresca la competitività del paese e liberi energie bloccate da sistemi stratificati di monopolio, mettendo in moto processi di liberalizzazione, spostando risorse dalla rendita agli investimenti, creando concorrenza, avendo come bussola l’interesse del cittadino destinatario ultimo dell’azione di governo.

Mentre Clemente Mastella continua ad aprire tavoli e disegnare scenari di futuri approdi condivisi coi centristi in fuga da Berlusconi, io penso che il punto ineludibile, se vogliamo parlare dell’Italia vera, è la non sostituibilità del sistema bipolare, che è entrato ormai stabilmente nella testa degli italiani (forse più che in quella dei politici) e nei loro comportamenti elettorali: le ipotesi di forze intermedie sono prive di ogni prospettiva. Tutti i sistemi elettorali realisticamente ipotizzabili per l’Italia sono giocati dentro la regola dell’alternanza: l’idea di partiti cuscinetto, che scelgono dopo le elezioni con chi allearsi, non solo è poco rispettosa delle scelte del cittadino-­arbitro ma è destinata all’insuccesso.

La via è un’altra: quella del Partito Democratico, inteso come il tentativo di restituire forza alla politica, pericolosamente in ritardo rispetto ad altri poteri, non solo attraverso una semplificazione del sistema ma attraverso un’assunzione di responsabilità tutta rivolta verso il futuro.

Altre operazioni guardano invece al passato. In questi mesi c’è stata grande enfasi sulle ragioni delle difficoltà, e sono state invece considerate scontate e banali quelle infinitamente prevalenti che rendono necessario onorare l’impegno, che abbiamo assunto con gli elettori, di costruire un partito vero e nuovo.

È tempo di accelerare insieme l’azione riformatrice del governo e la costruzione del PD non solo tra i dirigenti politici ma anche nella piazza. Il Partito Democratico è questo, una sintesi nuova tra la democrazia partecipata e la democrazia decidente che escluda le minacce del populismo da un lato e dell’autoritarismo dall’altro.

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