30 settembre 2006
Un’idea di democrazia chiama un’idea di partito. E se noi abbiamo maturato e condiviso l’idea della democrazia bipolare allora, conseguentemente, dobbiamo pensare a un partito che stia in un sistema democratico bipolare. Credo che sia compiuta nella coscienza degli italiani, ma anche nelle culture del più vasto mondo democratico, la transizione da una democrazia della rappresentanza che aveva come unica prospettiva quella di includere nel sistema interessi e correnti culturali plurali a un modello nel quale conta anche, e forse ormai di più, definire un progetto capace di fare sintesi di interessi e culture diversi. Da questa evoluzione nasce l’idea di un partito che corrisponda a questo modello di democrazia: e quindi si passa dall’idea di partito identitaria a quello di progetto.
Questo concetto andrebbe chiarito bene, in un tempo in cui da molte parti si enfatizza il valore della coerenza con le vecchie appartenenze, e sul quel valore si introducono spinte divisive.
Quando si dice che vogliamo fare un partito che abbia un progetto di società, questo non può essere un partito che tende a favorire le scissioni. Noi vogliamo un partito inclusivo e quindi abbiamo bisogno di coinvolgere una componente sempre più larga di società italiana che abbia in comune l’idea del futuro. Perché il Partito Democratico che noi vogliamo fare è un partito declinato al futuro, nel quale vivano in armonia tradizioni e culture, esperienze, storie che vengono da posizioni differenti, in passato anche in contrasto tra di loro. E a questo proposito credo che sia rischiosa l’inerzia che accompagna le classi dirigenti dei partiti, ma anche molte parti della società italiana, per cui c’è una costante riproposizione di schemi che in qualche modo si sono intrecciati con la nostra biografia. Noi siamo un po’ tutti ostaggi delle nostre biografie. Confondiamo le nostre identità e le nostre esperienze del passato con quella che dovrebbe essere oggi la nostra posizione rispetto alle domande nuove che la storia ci pone. E così scopriamo ogni giorno, spesso in modo drammatico, l’inadeguatezza delle esperienze che abbiamo alle spalle, delle nostre culture di provenienza, rispetto a interrogativi che sono tutti inediti, rispetto ai quali non c’è una tradizione che abbia in sé tutte le risposte.
Penso al dualismo tra la libertà di informazione e i limiti della stessa, e a quello tra la libertà di ricerca scientifica e il limite della stessa. O ancora all’antagonismo, che si tende a enfatizzare, tra il bisogno di sicurezza e l’esigenza di rispetto della vita privata dei cittadini. Penso alla crescente separazione tra l’economia reale e i mercati finanziari, per citare cose molto diverse tra loro; o all’esigenza di partecipazione che è presente nei cittadini e alla contemporanea necessità di una democrazia decidente, che sia capace di avere un sistema governante dei processi. O ancora, alle tematiche complesse legate all’immigrazione, che producono il problema di un nuovo bisogno di tolleranza delle culture, delle religioni.
Sono tutte questioni rispetto alle quali nel nostro vissuto politico, individuale e collettivo non troviamo risposte esaustive. La cultura politica (e la cultura in senso generale) non è un fatto statico, ma qualcosa che evolve, che si contamina a contatto con la storia.
In questa cornice di novità e di cambiamento collochiamo la nostra riflessione sul partito nuovo che intendiamo costruire. Come dovrà essere? Quale profilo dovrà avere? Quali riferimenti culturali? Sono le domande che abbiamo di fronte.
Il Partito Democratico, per come lo immagino io, non sarà un partito socialista; non sarà un partito dei cattolici democratici; non sarà un partito liberale. Sarà piuttosto un partito nel quale i socialisti, i cattolici democratici, i liberali troveranno una casa accogliente, perché sarà un luogo nel quale cercare insieme risposte nuove ai problemi che abbiamo davanti.
Così come le culture del Novecento, gli strumenti tradizionali del partito sono inadeguati. Guardiamo la vicenda italiana: i democratici cristiani prima e i popolari poi hanno compreso la limitatezza della loro esperienza storica nella vita politica italiana; ma anche coloro che hanno vissuto il travagliato passaggio dal comunismo al socialismo oggi misurano l’angustia dei vecchi contenitori nella consapevolezza che le proprie categorie politiche e organizzative non sono più sufficienti.
Questo è il tema. Dobbiamo allora interrogarci sul futuro e fare un partito che sia capace di aprire relazioni con le nuove correnti della cultura mondiale. Una cultura che sta mutando, che non è solo l’esperienza di un movimento politico; che non è neppure solo una convenzione che è servita ad avere relazioni sui processi della storia; che non è neanche solo un catalogo di valori. Ma che è tutte queste cose assieme.
Penso alle ininterrotte battaglie per la libertà, per l’uguaglianza, per l’emancipazione dei ceti popolari, per la difesa dell’ambiente che hanno sedimentato nel tempo un patrimonio condiviso del riformismo e dei democratici in Italia: non sono reliquie da museo, ma valori da vivere nella realtà che cambia. Partendo da questi valori, ma anche dalle nostre storie, da tutto quello che abbiamo saputo condividere, ci siamo impegnati, non da oggi ma già da un po’ di anni, per ricercare forme diverse, nuove, in grado di dare risposte ai problemi dell’Italia. In questa prospettiva è nato l’Ulivo e poi è maturata l’idea del Partito Democratico. Quali sono le urgenze che incontriamo ora sulla nostra strada?
Esiste, si dice, un dualismo tra il vertice e la base, per cui i vertici dei DS e della Margherita spingerebbero per fare subito il partito nuovo e la base frenerebbe. Io credo che, invece, esista un dualismo rovesciato, nel senso che la resistenza mi sembra venga di più dai quadri interni di questi due partiti che non dagli elettori. Fra gli elettori scopro, tutte le volte che mi confronto in libertà, una gran voglia di andare oltre i nostri partiti: quindi il problema sta piuttosto negli apparati dei nostri partiti, che vivono maggiormente l’inerzia, che sentono il richiamo della propria storia come un vincolo. Intendiamoci: non si tratta di demonizzare i partiti. Senza DS e Margherita non si fa nessun Partito Democratico, e anche qui vorrei che non ci lasciassimo prendere dalle illusioni o dai velleitarismi. Perché o i DS e la Margherita trovano il modo di fare il PD chiamando tutti i propri iscritti e i propri elettori a convogliare le loro energie, storie e passioni dentro il nuovo partito oppure non se ne farà nulla. E tuttavia abbiamo bisogno di sconfiggere quell’inerzia di cui dicevo, senza aver paura di perdere nulla di ciò che siamo stati. La nostra storia non deve essere un limite, ma una risorsa da liberare dentro il futuro, per vivere un’esperienza davvero nuova.
Questa è in fondo la cosa più appassionante della politica, che è cosa bellissima se sappiamo declinarla al futuro; altrimenti diventa sofferenza e nostalgia, un atto difensivo, reiterazione di cose che si sono consumate, una condizione sterile.
Questa è la sfida che l’Italia riformista e democratica ha davanti. O si fa un atto di coraggio mettendo in discussione, ognuno di noi, le nostre storie, o il rischio è il populismo.
Si dice spesso che il populismo sia una categoria della destra. Io penso che esista un grande rischio di populismo anche a sinistra. O noi faremo il Partito Democratico o qualcuno proverà a farlo contro i partiti o contro i vertici dei partiti: sarà un’altra cosa e sarà una straordinaria occasione sprecata da tutti noi. Ecco perché in questo momento occorre una grande spinta e occorre anche farsi carico delle incertezze, cercare di gettare come si usa dire il cuore oltre l’ostacolo. Fermarci, rimpiangere il passato, sarebbe un grave errore. Ho sentito, in questi giorni, persone di grande cultura illustrarci tutte le ragioni per le quali non è sicuro che il Partito Democratico sia la risposta giusta, tuttavia non ho trovato una risposta più convincente di quella per la quale sento di potermi spendere.
Con queste considerazioni ci prepariamo al seminario di Orvieto con la volontà di andare nella direzione di un nuovo assetto del sistema politico italiano, laddove i nostri elettori ci hanno preceduto, avendo oggi già superato molte di quelle divisioni che sopravvivono in una parte del ceto politico.
Penso che abbiamo il dovere di esaltare in questo paese non gli steccati di ieri, ma il futuro che ci può unire nell’interesse della democrazia italiana.
Il PD non è una scelta improvvisata e non abbiamo avuto false partenze, abbiamo fatto un cammino che è durato diversi anni e siamo arrivati ora davanti a un bivio ineludibile: onorare un impegno oppure tradirlo.
Nessuno ne parla e ho visto con quale facilità anche molti colleghi parlamentari hanno dimenticato una cosa fondamentale: noi abbiamo fatto la lista dell’Ulivo per la Camera dei Deputati dicendo agli elettori che sarebbe stata inevitabilmente seguita dalla nascita del Partito Democratico. La prospettiva del partito nuovo fa parte degli impegni con gli elettori. Se noi non faremo il Partito Democratico vorrà dire che avremo tradito gli elettori e questo avrebbe purtroppo una conseguenza sulla stabilità del sistema delle nostre attuali alleanze. Per cui penso che, insieme alle ragioni di testa e di cuore, per le quali trovo indispensabile procedere con risolutezza e non rassegnarsi alla spinta dell’inerzia, ci sia anche un impegno morale da onorare.
Aggiungo una considerazione che riprende il tema della democrazia bipolare. Noi abbiamo un sistema elettorale che è sostanzialmente di ostacolo al pieno dispiegarsi di una compiuta democrazia dell’alternanza e anzi abbiamo verificato come questa pessima legge abbia largamente favorito il ritorno ad alcune brutte abitudini proprie di una stagione che pensavamo lontana. Noi dobbiamo cambiare la legge elettorale. Dobbiamo cambiarla senza esitazione in direzione maggioritaria. E poiché questo è un tema che divide la coalizione di governo, dobbiamo avere la consapevolezza che ci sarà un giorno, credo nella prossima primavera, nel quale dovremo scegliere se fare fino in fondo il nostro dovere di chiarezza o galleggiare, con il rischio che una tensione dentro la coalizione possa avere delle conseguenze importanti. C’è all’orizzonte un referendum sulla legge elettorale il cui risultato finale non produrrebbe un buon sistema; ciò nonostante, ne deriverebbe comunque uno migliore di quello attuale.
Io credo che il referendum incontrerebbe il consenso degli elettori, se non altro per fastidio nei confronti dell’attuale legge: anche per questa ragione dobbiamo fare ogni sforzo per intervenire prima, non rassegnandoci, ancora una volta, all’idea che sia il referendum a costringere il Parlamento al cambiamento della legge elettorale.
Non mi unisco al coro di quelli che rilevano solo presunti fallimenti di questa maggioranza e di questo governo: al contrario, penso che abbiamo registrato successi significativi. Ad esempio, sul terreno che era annunciato come il più difficile per la coalizione, quello della politica internazionale. E penso che riusciremo ad avere un successo altrettanto significativo sul terreno della politica economica. Ma sono convinto che non potremo e non dovremo sfuggire al terzo appuntamento, che è quello delle riforme della nostra politica, del nostro sistema istituzionale, anche a costo di mettere in gioco la coalizione.