Il vino nuovo di Orvieto

28 settembre 2006

 

Il seminario di Orvieto del 6 e 7 ottobre “Per il Partito Democratico” può essere un banale e scontato convegno, un workshop dopo le feste di Margherita e DS, fine a se stesso, oppure può rivelarsi un’occasione straordinariamente seria: per porre fine al tormentone che accompagna il processo di costruzione del Partito Democratico dall’immediato dopo elezioni. Fino al 10 aprile tutti, senza eccezioni, abbiamo sostenuto che la lista dell’Ulivo avrebbe avuto come seguito il PD. Ci siamo candidati con questo impegno. E gli elettori hanno risposto con chiarezza. Poi è cominciato il grande dubbio in ordine al profilo identitario, ai contenuti politico­-programmatici, alle compatibilità di sensibilità differenti, al pluralismo di riferimenti storico­culturali e alla collocazione internazionale.

Orvieto può e deve essere l’occasione per dare una risposta. E se questa sarà positiva, dovremo trarne le conseguenze. Bisognerà indicare cioè un percorso preciso, le tappe, i tempi e le modalità per la nascita del nuovo partito: per lanciare il manifesto politico, la convocazione dei congressi dei due partiti fondatori e le modalità di consultazione democratica (le primarie) che daranno legittimità al nuovo soggetto politico. In questa prospettiva esiste lo spazio sicuro per una consultazione larga e consapevole di tutti gli italiani interessati. Ma i due partiti principali, DL e DS, fondatori essenziali e irrinunciabili, devono esprimere un orientamento non equivoco. A partire dal tema più controverso. Trovo che ci sia un’enfasi eccessiva – tanto nei partiti quanto nei media, anche se ne comprendo le motivazioni giornalistiche ­ sulla questione della famiglia europea: viene sovrastimata la funzione dei partiti (le famiglie) nella formazione delle decisioni politiche in Europa. In realtà, le decisioni politiche continentali passano attraverso i governi, quindi dai leader, poi dai gruppi parlamentari, assai marginalmente attraverso i maggiori partiti europei. E meno che mai attraverso strumenti ormai fuori dal tempo come le Internazionali.

Sono pochi gli italiani che si chiedono, nella vita di tutti i giorni, quale sia il proprio partito europeo. E si tratta abitualmente di addetti ai lavori. Ma non voglio sfuggire la questione: il PD dovrà essere un partito nuovo e non il nome nuovo del partito che abbiamo. Citando un noto libro di Emanuele Macaluso si potrebbe dire che «da cosa non nasce cosa». Quando sento formulare l’affermazione «non possiamo uscire dal PSE» mi viene il sospetto che in molti pensino a un processo di incorporazione. Se la strada fosse questa, il processo purtroppo fallirebbe. Non serve a nessuno un’operazione di semplice annessione.

Il PSE è oggi un contenitore di soggetti diversi e lontani: al cui interno convivono allo stesso tempo vecchi statalisti e socialisti liberali, convinti europeisti e decisi oppositori dell’Unione Europea. La categoria del socialismo è un collante nominale al quale spesso non corrisponde una politica comune.

Dagli amici DS ci viene spesso detto che, una volta superati i confini nazionali, occorrerà fare i conti con il PSE: sono d’accordo. Ma occorrerà fare i conti con tutti i soggetti del campo progressista presenti in Europa e nel mondo. Magari immaginando tutti insieme forme nuove ed efficaci di cooperazione sovranazionale, che favoriscano la creazione di una rete nuova del riformismo in Europa e che siano interlocutori privilegiati del campo riformista e democratico nel mondo del XXI secolo. E una sfida che ci riguarda tutti, liberali e progressisti, cattolici democratici e ambientalisti, ma è anche un orizzonte ambizioso. Di qui a quel traguardo ci sono fasi intermedie possibili. Partiamo dal primo passo: dalla disponibilità ad accettare che il PD non sarà un partito socialista. Così come non dovrà essere la riproposizione di alcuno dei partiti italiani del XX secolo.

E torniamo a quello che diremo e faremo a Orvieto il 6 e 7 ottobre: il seminario dovrebbe dire cosa vuole essere il PD. Dovremo tentare una risposta persuasiva alle domande che disegnano il campo democratico nel nostro tempo, a partire dalle contraddizioni di questa modernità che oppongono desiderio di partecipazione ed efficienza dei governi, libertà e limiti dell’informazione, libertà e limiti della ricerca scientifica, privacy e sicurezza, Stati nazionali e mercati globali, precarietà nel lavoro e diritto al futuro, immigrazione e tolleranza religiosa, solo per indicarne alcune. Su questi temi, come su tantissimi altri, esiste una nuova sensibilità maturata nell’esperienza dell’Ulivo che ha largamente cancellato i confini delle vecchie appartenenze.

Dobbiamo evitare che sopravvivano schemi e divisioni che ormai non esistono più nella testa dei cittadini, nella vita di tutti i giorni. Il problema non è più fare la sintesi di culture che sono state diverse e spesso contrapposte. Dobbiamo solo registrare che questa sintesi è già maturata tra i nostri elettori: dobbiamo, noi donne e uomini dei partiti, superare questa dissociazione.

Anche perché se non lo facciamo noi, se non governeremo noi questo processo, il PD lo farà qualcun altro. Magari nel segno di un nuovo populismo di sinistra: sarebbe una colpa imperdonabile.

Se prevalesse l’inerzia della conservazione rispetto al dovere della politica di comprendere i processi della società, delle grandi correnti culturali che hanno dimensioni planetarie, perderemmo la sfida decisiva della nostra generazione. E non ci sarà un tempo supplementare per quanti avranno scelto in questa stagione di privilegiare un calcolo miope rispetto al rischio di una strada nuova e affatto garantita: la scommessa della nuova buona politica non si vince giocando in retroguardia.

PRIVACY POLICY