Il gioco delle bandierine

23 giugno 2006

 

Un pasticcio. È stato modificato più di un terzo degli articoli della Costituzione con un coacervo di norme tra di loro largamente contraddittorie.

In realtà non è in discussione la necessità di adeguare la Carta alle mutate condizioni della società italiana, della cultura e degli stili di vita, della scienza e della tecnologia.

Purché ci si ricordi che la Costituzione di un paese non è un prodotto di stagione, ma ha una primaria funzione: quella di esprimere l’identità di un popolo, il patrimonio dei suoi valori e dei principi fondamentali, delle regole generali su cui fondare l’ordinamento.

Per questo è indispensabile che la seconda parte della Carta conservi un forte legame con la prima, quella appunto dei valori e dei principi. Purtroppo, il prodotto confezionato nella scorsa legislatura è tutt’altro che coerente con la prima parte ed è contraddittorio anche al suo interno.

La causa di questo pasticcio va ricercata nell’approccio politico con cui si è arrivati a questa riforma, cioè la necessità di dare risposte a una pressione, ma diciamo pure ricatto, da parte di Bossi che diceva: «o si fa la devolution o io rompo la coalizione». In questa trattativa: sono poi inseriti tutti i partiti per mettere la propria bandierina, ognuno preoccupato di avere un trofeo da esibire alle elezioni, nel segno di una drammatica caduta del senso delle istituzioni, espressione patologica di un sistema politico degenerato e irresponsabile. In questa cornice è maturata la cosiddetta devoluzione, che attribuisce alle regioni competenza esclusiva in materie con riguardano i diritti essenziali dei cittadini, come a, esempio la sanità e l’istruzione, che innesca un meccanismo sostanzialmente separatista. Le regioni più ricche sarebbero in grado di offrire prestazioni negate ai cittadini residenti nelle aree più deboli. Il diritto di cittadinanza viene riconosciuto come una variabile territoriale di
Altre norme stabiliscono un meccanismo di conflittualità permanente, ad esempio quando attribuiscono allo Stato competenza esclusiva in materia di tutela della “salute”, mentre le regioni hanno competenza in materi “sanitaria”.

Tra i punti più discussi c’è poi la forma di governo, cardine della riforma: perché affida al primo ministro grandi poteri di tipo sudamericano, con una configurazione così forte delle prerogative presidenziali che nessuna democrazia possiede. Neppure gli Stati Uniti. La nuova Costituzione prevede infatti un presidente con potere di scioglimento dell’unica Camera che può negargli la fiducia. Potere sottratto al capo dello Stato e attribuito al presidente del Consiglio, con un meccanismo di sfiducia costruttiva impraticabile: basta che uno solo dei deputati eletti in uno schieramento diverso cambi orientamento per inibire la sfiducia costruttiva.

È previsto un Parlamento debole, come debole è ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, praticamente inesistente.

Volendo riassumere si può dire che a un impianto parlamentare subentra un sistema “simil presidenziale” nel quale la figura del primo ministro, leader della maggioranza politica, assume un ruolo preponderante, sostanzialmente svincolato dal controllo parlamentare. Il bilanciamento dei poteri viene di fatto rimosso in favore del premier, padrone e arbitro della legislatura.

Quanto al procedimento legislativo si introduce, a seconda delle materie, una via monocamerale, una bicamerale, e una forma mista eventuale, quando un ramo del Parlamento richiede di modificare il provvedimento dell’altro, previa intermediazione dei presidenti delle due Camere o di un comitato paritetico di senatori e deputati, in qualche modo elevato a “Terza Camera”.

Sono sicuro che occorre rendere evidenti a tutta l’opinione pubblica le nostre ragioni, i motivi della nostra opposizione alla riforma Berlusconi, ma, insieme, assumere un impegno non generico per il futuro.

Per modernizzare le istituzioni nello spirito più fedele dell’articolo 138.

Per questo la sfida referendaria non deve essere interpretata come una sessione posticipata delle elezioni politiche, ma come un’occasione irrinunciabile per ripartire nelle condizioni migliori, per rimettere in moto un processo virtuoso di riforme.

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