introduzione: quale domani per la sardegna

Introduzione di Giovanni Lilliu

 

In questo volume sono raccolti ventisette scritti di Antonello Soro, che riproducono articoli di giornale e discorsi tenuti al Consiglio regionale e in sede di partito (della D.C. prima e poi del rinato P.P.I.). Gli scritti nell’insieme rappresentano il succedersi di riflessioni, stimoli, proposte e atti dell’uomo politico, oggi leader del P.P.I. in Sardegna, dal dicembre del 1990 al gennaio di quest’anno, e vogliono essere una sorta di resoconto di attività ai suoi elettori.

Penso peraltro che la lettura del libro possa essere utile per così dire al di là della “cerchia”, in quanto, sia pure attraverso il pensiero d’un uomo di parte, si ricava una traccia – onestamente rilevata – dello stato dell’isola in questo travagliato e torbido cambiamento del sistema politico. Vi si leggono appunto le situazioni pregresse e in atto che hanno determinato, e determinano, la grave crisi – che non è soltanto emergenza economica – in cui versa la Sardegna.

Certamente l’aspetto economico è il più vistoso della recessione, con la caduta del settore industriale, la debolezza dell’agricoltura, il venir meno del flusso finanziario, da cui la galoppante disoccupazione. Ma non minori preoccupazioni destano il degrado dello stato sociale e della cultura dell’autonomia con i suoi valori di identità, la sfiducia dei cittadini verso i partiti e le stesse istituzioni democratiche, il declino morale e il disamore alla politica, il ritrarsi nelle nicchie dell’egoismo. E, inoltre, l’impermeabilità del governo nazionale ad ascoltare la domanda che viene dall’eccezionalità del presente momento e l’insufficienza di quello regionale a provvedere alternativamente perché non sfrutta tutte le sue possibilità.

Un orizzonte così fosco potrebbe sembrare disperante e la situazione irreversibile. Antonello Soro la ritiene, invece, rimediabile in tempi giusti se la si affronta scommettendo ancora sulla politica. Egli propone un “Progetto Sardegna” da attuare nel segno del nuovo con i requisiti dell’onestà, della capacità e della collaborazione sincera di diverse forze politiche. Un progetto inteso a saldare sviluppo e solidarietà, sulla frontiera avanzata d’un autonomismo rivissuto (un federalismo vorrei soggiungere) al confronto dell’Europa e del Mediterraneo, fondata sulla identità di valori di natura, ambiente, lingua e cultura da cui trarre le ragioni dei sardi come protagonisti della propria storia.

Nello specifico della crescita economica, che non può non influire largamente e capillarmente sul sociale, Soro è orientato verso forme di sostegno regionale in favore della media e piccola industria, già decollata nell’isola con una quota di valore aggiunto confortante, da migliorare con la ricerca e le innovazioni tecnicoscientifiche che vanno di concerto promosse, sorrette e valorizzate.

Altra direzione di intervento per lo sviluppo è vista nella tutela dell’ambiente e nel governo rigoroso del territorio con l’uso (ma non il consumo) della risorsa del turismo costiero e interno, fatti salvi i piani paesistici giusta le norme della legge ’45 e un controllo decisivo della Regione ad evitare deviazioni in patteggiamenti localistici profittevoli alla speculazione esterna.

E’ rilevante lo scritto “il rinnovamento non può essere solo una promessa”, che riproduce il discorso dell’Assemblea regionale costituente del partito popolare, quando Soro fu eletto Segretario regionale. Vi sono tracciate le linee programmatiche e direttive del nuovo soggetto politico, sulla base dei valori concettuali e morali a cui gli aderenti si dovranno conformare in spirito di servizio per realizzare il bene comune d’una società ben ordinata. Un partito che deve marcare, non solo nominalmente, la discontinuità rispetto al passato senza peraltro rinnegare quanto del vecchio sistema politico e frangente storico il cattolicesimo democratico e riformatore ha creato e prodotto in positivo per la crescita in libertà del Paese, conscio d’altra parte degli errori e dei tradimenti che hanno portato al progressivo deterioramento sino alla corruzione dello stesso sistema per colpe oggettive e soggettive.

Soro delinea un partito che nel suo nome richiama la memoria storica delle origini e nei fatti intende di nuovo radicarsi nel denso e intrecciato tessuto degli strati popolari immedesimato nelle ragioni ideali e negli interessi reali, fuori da posizioni di privilegio di classe e di potere. Un partito costituzionalmente laico, sostanziato spiritualmente e culturalmente dall’umanesimo popolare cristiano sedimentato da secoli nella coscienza collettiva del Paese e patrimonio inalienabile e irrinunziabile della civiltà occidentale, pena la sua caduta.

Per il nuovo partito di popolo – in tutte le articolazioni di pensieri e di affetti – sono i cittadini a contare nella gestione politica, in spirito di comunione che non vincola la libera coscienza e i liberi atti dei singoli, né le scelte di appartenenza ai diversi partiti o aggregazioni politiche. E tra queste forze si auspica il confronto democratico, la cultura della tolleranza, le pari dignità, senza accampare pretese di superiorità intellettuale e morale, senza veruna egemonia.

Così configurato, in un concerto di comunione e partecipazione giusta una precisa identità di riferimento ideale e di valori collanti, il rapporto partito-cittadini cessa di essere quello ignobilmente sperimentato e divenuto perverso colpevole intrigo dello scambio potere-consenso, fattore principale della corruzione nella stagione politica passata. Ciò consente anche di riconciliare con la società politica la società civile, sua generatrice non esente pur essa da colpe, e la gente comune che oggi va manifestando, razionalmente o meno, sentimenti di inimicizia e di reiezione di quanto appartiene ai partiti e alla categoria della politica.
Pregiudiziale, nel disegno del nuovo partito popolare, è la soluzione della questione morale, collegata al congedo della vecchia classe dirigente e al totale rinnovamento con soggetti nuovi, onesti, competenti e degni di merito. Pregiudizialmente anche la questione nazionale, intesa come indissolubile unità del Paese, che però lasci ampi spazi al dispiegarsi della ricchezza in valori, idee e atti degli autogoverni regionali e delle autonomie locali. Pregiudiziale infine la questione sociale che si risolve con un giusto equilibrio dei poteri sociali – poteri di fatto – i quali non possono essere lasciati totalmente alla libera iniziativa del privato come vorrebbe un certo liberismo illiberale né a pratiche di mercato ad libitum quali vanno postulando o pretendendo settori “forti” del capitalismo oligarchico o familistico italiano. Insomma meno Stato d’una privatizzazione esclusiva che tende ad accumulare a suo profitto senza controllo del pubblico il quale deve invece misurarne la ricaduta distributiva con maggior favore delle fasce deboli della società. Il che, in un partito di cattolici quale il P.P.I., significa – o deve significare – la “scelta dei poveri”.

Antonello Soro mi perdonerà queste chiose un po’ ai margini del suo discorso sul P.P.I. che egli si è avviato a guidare, in Sardegna, per un sentiero irto, difficile e insidioso e con una schiera in partenza minoritaria e tuttavia ferma ai suoi convincimenti ideali e ai suoi solidi valori di fede che alimentano la speranza e rendono virtuosa l’azione per il futuro. Egli si muove – come tutti ci muoviamo – in una situazione di epoca caotica, con pochi punti di riferimento, con scarsa voglia di ricerca della “verità” e di radicamento etico nella politica. Manca il senso profetico del tempo. Non consapevoli delle situazioni, ci si lascia trascinare dagli eventi anziché governarli, le scelte hanno una mutazione giornaliera, condizionate da interessi contingenti profittevoli.

La riforma elettorale seguita al referendum, con la mistura indigesta di “maggioritario” e “proporzionale”, ha generato, anziché la desiderata semplificazione per una democrazia sul modello Westminster, una “giungla” di “alleanze”, “atti”, “forze”, “club”, incoerenti, morganatici e criptici, ammucchiate pasticciate nelle quali l’elettore stenta a riconoscersi, quando non è ridotto, esso stesso per la confusione che nutre le aggregazioni allo stato confusionario.

A giudicare dalla tornata elettorale in corso, la cosiddetta seconda Repubblica nasce in un clima di trasformismo, mistificazione, ambiguità, di “nuovismo” segnato di “vecchi monumenti”, di ideologie riverniciate nei contenuti e nel linguaggio, insomma una “Babele” che rischia di compromettere la governabilità del Paese in un Parlamento che si vuole “epurato” dalle incrostazioni peccaminose del passato.

C’è un grande annebbiamento nel nostro presente che grava nel cielo incerto del nostro Paese. Certa è soltanto la voglia di “pulizia” graidata anche dalle piazze in modo improprio e con spirito quasi di vendetta. La magistratura ha concorso e concorre a questa pulizia, si auspica in serenità di giudizio e senza intreccio politico, sino a che cessi l’emergenza, perché, alla fine, la normalità sarà instaurata dall’autoriscatto della coscienza etica degli italiani.

Se è rivoluzione quel che oggi passa di nuovo nel nostro Paese, non la si deve ai giudici e ai mezzi di comunicazione di massa che oggi sembrano governare le vicende, in assenza della politica cui spetta il governo di uno Stato di diritto. Se mai la rivoluzione si deve alle virtù di tanti italiani che, nei tempi del peccato, si sono conservati “onesti”.

Si avrà una vera rivoluzione, da noi e altrove, quando il modello di vita e di società del Welfare farà luogo al modello del Welbing, ossia allorché la società del benessere diverrà la società dell’essere. Non più un uomo-merce ma un uomo-uomo.

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