Partito democratico e nuova autonomia

Il governo Berlusconi volge al termine nel peggiore dei modi lasciando in eredità un Paese in recessione, violato nelle sue radici costituzionali e mortificato nelle aspirazioni di bipolarismo. Romano Prodi, rafforzato dal voto popolare delle primarie, è chiamato a guidare una lista ulivista, costruita sull’asse Margherita – DS, come tappa intermedia di un processo ambizioso verso il partito democratico. In questa cornice la politica rivendicativa-contestativa della Regione in materia di autonomia finanziaria inaugura una fase nuova dell’autonomia sarda.
Assemblea regionale Margherita, Tramatza 11/11/2005

Ci troviamo dentro una stagione ricca di straordinari avvenimenti, tensioni, conflitti.
Da un lato la fase terminale dell’esperienza di governo della Destra in Italia, segnata da un susseguirsi di sfide, strappi ai principi generali che hanno regolato finora la vita democratica nel nostro Paese.
Dall’altra una fase di acutissimo contrasto tra la Regione sarda, la Sardegna nella sua interezza di interessi e speranze, e il governo dello Stato sul terreno dell’autonomia finanziaria.
Dentro questa cornice le vicende del nostro partito, della nostra coalizione politica, quanto mai intensamente intrecciate nelle preoccupazioni e nelle scelte che sono davanti a noi.
È il tempo del bilancio per il governo Berlusconi. Siamo alla conclusione di una esperienza di governo dell’Italia che suscita sentimenti di opposizione nel Paese che intrecciano indignazione, delusione, stanchezza.
L’Italia di Berlusconi è scivolata verso il declino. Nella competitività dell’economia, nella credibilità internazionale, negli indicatori della ricchezza, nella fiducia dei cittadini, nel tasso di legalità. È aumentata la povertà non solo nelle regioni deboli del Mezzogiorno ma anche nelle aree più ricche e dinamiche. È aumentata l’indignazione sociale, si è ridotta la coesione.
Intanto che il mondo cambiava sotto l’impulso di nuovi protagonisti, con le tragedie e le contraddizioni della nostra modernità, con le opportunità e insieme le sfide della scienza e della cultura, con i cambiamenti profondi negli equilibri internazionali, nei comportamenti e nelle gerarchie sociali, il nostro Paese non è rimasto fermo, è tornato indietro.
Intanto che tutto intorno a noi cambiava, il nostro Paese per cinque anni è stato guidato da un leader intento a curare esclusivamente i propri interessi, a fare leggi per la tutela della propria persona, a coltivare con favori e regali un blocco sociale ed elettorale abbagliato da promesse di ricchezza prive di qualunque ragionevolezza.
Il governo Berlusconi ha dissestato la finanza pubblica, ha sprecato in poco tempo il credito virtuoso costruito da Amato, Ciampi, Prodi negli anni precedenti.
Nessuno può descrivere oggi quali siano i danni reali che derivano all’Italia dall’essere rimasta esclusa dai grandi flussi economico-finanziari internazionali. Certamente il bilancio è disastroso.
Ma se posso dire quello che a me pare essere il lascito più pesante, direi che è la perdita dell’interesse generale come principio ispiratore delle attività dello Stato.
Ora va in scena l’ultimo atto. Alla fine di questa estate Berlusconi ha intrapreso la strada disperata dello strappo ulteriore, concentrando in poche settimane il cambiamento della Costituzione, una nuova legge elettorale, una legge finanziaria che svuota la cassa degli enti locali e trasferisce un peso insostenibile sulle famiglie.
Tre leggi dettate dalla disperazione politica che avrebbero fatto impallidire i cosiddetti golpisti di altri tempi e che il Parlamento approva senza alcun confronto democratico. Nell’aula della Camera e del Senato, i deputati e i senatori tacciono. La maggioranza parlamentare, si potrebbe dire, è consegnata.
Alla sfida di Berlusconi hanno risposto una prima volta gli italiani che sono andati alle urne il 16 ottobre.
Nuova legge elettorale e primarie hanno prodotto nel corso di poche settimane un cambiamento straordinario nel nostro sistema politico. E noi abbiamo reagito in modo tempestivo e responsabile.
La legge elettorale voluta dalla maggioranza parlamentare con l’unico obiettivo di ridurre le dimensioni della sconfitta, nell’assoluto disprezzo per l’interesse generale di stabilità del sistema, innesca una pericolosa spinta di logoramento del bipolarismo. Scompare completamente il luogo del voto unitario delle coalizioni e cresce la pressione competitiva tra partiti alleati.
Dalla consapevolezza di questo rischio e dalla volontà di contrastare la spinta divisiva e dall’interesse democratico a conservare l’impianto bipolare del sistema è nata la volontà di una lista ulivista, costruita sull’asse DS e Margherita come tappa esplicita di un processo verso il partito democratico. Non una scelta organizzativa ma un chiaro e forte progetto politico.
Le primarie del 16 ottobre hanno rappresentato un evento dirompente che modifica in profondità i caratteri del nostro sistema politico. Le file davanti ai seggi di una comunità politica consapevole, desiderosa di comunicare la propria appartenenza, costituiscono l’immagine indelebile di una splendida giornata della nostra democrazia.
Le primarie hanno offerto una risposta al bisogno di molti cittadini di entrare nella politica con una parte attiva, non da spettatori. Questo è il dato principale.
Poi ha contato molto anche il bisogno di segnalare un forte sentimento di opposizione civile e sociale nei confronti del governo Berlusconi, ha contato molto la volontà di manifestare una scelta, una chiara indicazione del profilo del Centro sinistra che vogliamo.
Gli elettori hanno indicato con una chiarezza che non lascia adito a interpretazioni che vogliono un Centro sinistra saldamente ancorato al riformismo prodiano, alla cultura democratica e innovativa che sa accogliere e canalizzare tutte le spinte radicali dentro un’idea dello Stato democratico che è fatto di regole, di coesione, di equilibrio, di pluralismo, di laicità. Gli italiani ci hanno chiesto di far nascere un nuovo soggetto politico che sia tutto dentro il XXI secolo. Non un espediente elettorale di breve respiro ma l’avvio di un progetto politico ambizioso.
Non un semplice contenitore ma un soggetto nuovo che sia capace di archiviare le ferite prodotte nel campo riformatore dalle ideologie del novecento, per dare compimento alla transizione politica italiana, per governare una società competitiva e solidale. Per dare stabilità alla democrazia bipolare, sottraendola alla deriva personalista e populista che altrimenti rischia di prevalere.
L’indicazione della meta dà un orizzonte nuovo al prossimo appuntamento elettorale ma non dobbiamo avere la presunzione di rimuovere le difficoltà del percorso che ci attende.
La nostra Assemblea Federale ha indicato l’agenda su cui dovremo lavorare e ha posto in evidenza snodi politici ineludibili. Noi pensiamo che sia irrinunciabile una collaborazione internazionale non riconducibile alle tradizionali famiglie del secolo scorso, che sia necessario un profilo programmatico riconoscibile e innovativo rispetto alla sinistra tradizionale, un riconoscimento pieno del pluralismo culturale e della pluralità dei gruppi dirigenti.
Su questi temi il confronto sarà serrato e tutto il patrimonio di elaborazione e di esperienza maturati in questi pochi anni di vita del nostro partito saranno il prezioso contributo che noi porteremo a questo appuntamento.
L’orizzonte del partito democratico ora non è più un luogo astratto dei desideri e neppure una scelta subita per necessità, in condizioni di debolezza. È una destinazione verso la quale abbiamo scelto, unitariamente, di andare nelle migliori condizioni, politiche e organizzative, del nostro partito.
Apriamo oggi nella nostra Assemblea regionale, un dibattito che dovrà coinvolgere tutti i nostri iscritti, tutti i nostri elettori. Sono certo che sapremo vivere questa fase con lo stesso rigore e con lo stesso entusiasmo con cui abbiamo lavorato finora.
In questa prospettiva assume un valore di più rilevante significato la fase politica in cui noi siamo impegnati in Sardegna. La rivendicazione – contestazione in materia di autonomia finanziaria della regione ha trovato il registro materiale e simbolico di un’apertura forte e autorevole di un nuovo contratto tra la Sardegna e lo Stato nazionale.
Il lavoro del Consiglio, della Consulta che dovrà insediarsi nelle prossime settimane, si innescherà in un ordito finalmente visibile della questione sarda: che è questione per molto tempo compressa e rimossa nella generale indifferenza, nella tacita omologazione della nostra specialità alle forme ordinarie di amministrazione decentrata dello Stato.
L’incredibile elusione degli obblighi connessi al nostro statuto rivela ad un tempo l’area enorme di “separatezza” delle burocrazie ministeriali nell’esercizio di una funzione così delicata nella vita repubblicana, rivela l’approssimazione con cui trovano attuazione le Regole più importanti del nostro sistema statuale; ma ad un tempo rivela le responsabilità omissive dell’amministrazione regionale per un periodo troppo lungo per non essere colpevoli.
In questo quadro da un lato va reso omaggio al lavoro serio e puntuale di ricognizione e di analisi della Giunta regionale e della Commissione Bilancio, egregiamente guidata dal nostro Eliseo Secci. E vogliamo riconoscere che il Presidente della Regione ha saputo interpretare il suo ruolo con efficacia e autorevolezza pari alle nostre aspettative.
E tuttavia dobbiamo avere la consapevolezza che quando accadono così gravi violazioni del patto costituzionale su cui fonda il nostro ordinamento autonomistico, significa che in passato non abbiamo fatto buon uso dei nostri poteri, che abbiamo cessato, per una stagione non breve, di interpretare il sentimento collettivo dei sardi e di rappresentarlo dentro le istituzioni.
Per questo considero le battaglie per l’autonomia finanziaria, per il suo valore sia materiale che simbolico, il segno che è davvero partita la nuova autonomia, che siamo in grado di ripensare la questione sarda, le istituzioni e i progetti per rimettere in moto la nostra regione. Per ritrovare la fiducia dei sardi nella Regione e, insieme, per collegare la Sardegna, la nostra coscienza civile ai processi di cambiamento che si svolgono intorno a noi, per aprirci alla cultura e all’economia dell’Europa e del mondo.
Dobbiamo mantenere viva e forte la mobilitazione di questi giorni, dobbiamo arricchirla di contenuti politici generali, ricercando in ogni modo il massimo di unità e di coesione autonomistica.
Le cose dette ieri dal governo alla Camera dei deputati misurano ancora la gigantesca distanza che ci separa dalla soluzione della vertenza. E nessun inganno può essere più tollerato nel nome di una educazione istituzionale che potrebbe apparire rassegnazione.
In questo senso dobbiamo lasciarci rapidamente alle spalle l’incidente di “ingenuità” che ha messo fuori strada i rappresentanti sindacali, ingannati in modo vergognoso da un governo che ha fatto della disinformazione un’ideologia.
Io penso che sia indispensabile convocare tutti i consigli comunicali della Sardegna, promuovere una autentica assemblea del popolo sardo perché si estenda a tutti i cittadini come è giusto, come è dovuto, la titolarità della denuncia e della contestazione per il danno ricevuto ma anche per l’autonomia negata.
Il sostegno forte alla politica rivendicativa intrapresa da Renato Soru in queste settimane ci impegna ad essere altrettanto severi, rigorosi, puntuali sul versante della nostra responsabilità nel governo della Regione. Un quarto della legislatura è alle nostre spalle e possiamo dire con franchezza che non è stata sprecata.
Abbiamo messo in cantiere un disegno serio di riforma e di modernizzazione della Sardegna nel segno del programma elettorale approvato dagli elettori.
Difesa dell’ambiente, riequilibrio del territorio, snellimento della pesante strumentazione regionale, risanamento del Bilancio, moralizzazione della spesa, apertura di un processo nuovo di programmazione economica per superare le vecchie diseconomie, per sviluppare i fattori di vantaggio competitivo a partire dal carattere singolare del nostro territorio.
Su questo fronte si è aperta una strada di buona politica e si è avviato seriamente un nuovo corso nel governo della Sardegna. Ora è maturo il tempo perché gli indirizzi diventino leggi, misure, fatti.
Occorre ora agire, concretamente, sulla struttura della spesa, in coerenza con gli indirizzi già definiti: nel riordino dei servizi, nelle politiche industriali, nella riforma degli incentivi, nella governance dell’economia turistica e dell’agroalimentare, per dire dei più importanti.
Io so, sappiamo tutti, che non sono mancati motivi e circostanze di qualche insoddisfazione, particolarmente per la difficoltà di conservare pervio il canale della partecipazione e del concorso della maggioranza consiliare al lavoro dell’Esecutivo.
Sappiamo che il nuovo modello istituzionale, l’architettura centrata sul ruolo primario del Presidente ha prodotto qualche rallentamento e ha condizionato lo stesso dibattito aperto negli ultimi mesi sulla riforma statutaria.
È disputa aperta nelle principali democrazie europee il tema del dualismo tra efficienza e partecipazione e particolarmente il rischio di una perdita di ruolo delle Assemblee legislative.
I parlamenti e le assemblee elettive incontrano ovunque notevoli difficoltà nell’affrontare la crescente complessità e il carattere spesso informato a un notevole contenuto tecnico delle trasformazioni in atto. Esiste un divario tra gli strumenti e le informazioni di cui dispongono gli interessi strutturati presenti nella società e le istituzioni di governo, così come esiste un divario tra i tempi dell’economia e i tempi della democrazia. È questione complessa per la quale nessuno ha soluzioni facili.
Limitandoci all’Italia sappiamo che in tutte le regioni si è aperta una riflessione critica sull’esperienza di questi anni. Anche noi dobbiamo liberamente discuterne.
Io sono convinto che l’attuale sistema sia presidenziale solo in apparenza: che in realtà la titolarità del Consiglio ad approvare le leggi, a partire dal Bilancio, configuri una sostanziale diarchia Presidente/Consiglio. E questa diarchia può essere virtuosa ma può produrre anche lo stallo istituzionale.
Tuttavia così come non è pensabile una riduzione del ruolo del Consiglio non è neppure auspicabile il ritorno al sistema precedente di elezione consiliare del Presidente, con il suo portato di instabilità, di sostanziale precarietà dell’azione di governo, ma, ancora più negativo, con una sottrazione all’elettore del potere di scelta del programma e del leader.
La mia personale opinione è che da questi rischi (stallo istituzionale, precarietà degli esecutivi o se volete presidenzialismo autarchico) non si esce con una formula, con un modello astratto ma con un supplemento di coesione politica tra il leader e la sua maggioranza.
Continuo a credere che le fondamenta del sistema debbano essere quelle di una democrazia maggioritaria con grandi partiti capaci di fare da tessuto comune tra gruppi ed interessi sociali, in modo da accrescere i fattori di coesione e ridurre ogni spinta centrifuga. Senza partiti con questi caratteri sono destinate a prevalere le forze e le emozioni forti e non trasparenti.
Questa mia convinzione mi porta a considerare non auspicabile qualunque configurazione “tecnica” degli esecutivi. L’esperienza di questa prima fase della legislatura, l’esperienza di molti assessori con la vocazione di consulenti del Presidente mi conferma in questa mia opinione.
E tuttavia la discussione è assolutamente positiva per trovare una sintesi e un punto di approdo dentro il nostro partito, dentro la maggioranza e se possibile dentro il Consiglio.
Ci aspettano mesi difficili. Fra poche settimane saremo già in campagna elettorale. Per questo dovremo accentuare il nostro impegno organizzativo, dovremo adeguare la comunicazione alle novità sia di sistema elettorale sia di presentazione delle liste, dovremo fare le nostre scelte.
Mi sono chiesto più volte in questi giorni quale debba essere la nostra cifra politica, il profilo della Margherita che dovremo far conoscere agli elettori.
Certamente il carattere generale delle elezioni politiche richiede a noi come a tutti i partiti della coalizione una forte attività di informazione sui caratteri dell’alternatività del nostro programma rispetto a quello del governo Berlusconi.
Lo faremo presto e sono certo che sapremo essere persuasivi perché incontreremo una sensibilità già verificata.
E tuttavia noi saremo più convincenti se sapremo dare prova di buona politica nella dimensione più vicina, quella nella quale più forte è il controllo sociale e nella quale sono riposte con più immediatezza le speranze dei nostri concittadini.
La cifra della Margherita deve essere ancora, come è gia stato negli ultimi 18 mesi quella dell’unità, della coesione e della coerenza con il progetto di governo su cui abbiamo scommesso il nostro impegno.
Nel 2004 si è creata in Sardegna una straordinaria aspettativa, un grande movimento di fiducia nel nuovo corso della politica regionale, direi senza enfasi, della politica. Non possiamo deludere questa aspettativa, non abbiamo il diritto di deluderla.
Anche se governare è più difficile, infinitamente più difficile, della costruzione di una buona campagna elettorale, noi abbiamo il dovere di corrispondere a questa speranza, a quanti hanno scommesso su si noi .
E abbiamo la responsabilità di cambiare il futuro della nostra terra, testimoniando la nostra passione politica e il nostro amore per la Sardegna.

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