Le bugie di Tremonti

La Nuova Sardegna, 20/11/2002

Dicono che Giulio Tremonti abbia scoperto in questi giorni che l’economia italiana sia in grave sofferenza e che il suo Ministero non sia indifferente alla questione.
Alcuni dati rendono l’idea.

Crescita vicino allo zero, inflazione più alta di tutti i paesi dell’Euro, gettito fiscale in pauroso calo, consumi delle famiglie (per la prima volta dal 93!) in netta flessione, produzione industriale costantemente di segno negativo, competitività in declino.
Il debito pubblico ha ripreso a crescere più velocemente del Pil e i nuovi consapevoli errori di stima dei fondamentali dell’economia per il 2003 (crescita al 2.3%, contro ogni previsione degli istituti di ricerca interni e internazionali!) candidano l’Italia ad uno sfascio della finanza pubblica e, insieme, ad una prolungata fase di stagnazione economica.

Incertezze e precarietà rendono ogni giorno più insicuri gli imprenditori che hanno scommesso nello sviluppo del Mezzogiorno. E proprio per il sud infatti il Governo ha cancellato per i prossimi due anni ogni forma di sostegno (anche quelli già esecutivi) spostando al 2005 le poste di bilancio, ha pasticciato in modo indecente sugli incentivi più efficaci (credito d’imposta, legge 488, Dit, programmazione negoziata) ha rallentato con nuovi lacciuoli il flusso dei finanziamenti già decretati, con un ritorno alla spesa centralistica e discrezionale.
E così è esploso il dissenso di tutti: industriali e sindacati, regioni, comuni, commercianti, università… un elenco infinito.
Il grande sogno si è infranto contro la realtà, l’illusione di ” un’Italia da bere”, come era quella disegnata sui maxiposter elettorali di Berlusconi, si è sgretolata di fronte alla fredda oggettività dei numeri. Dati che smentiscono il governo ogni giorno. E ogni giorno il ministro Tremonti è costretto a correggersi, ad usare la sua “creatività” per cucire toppe su un vestito – il progetto politico di questa maggioranza – che si è logorato in pochi mesi, fino a risultare irriconoscibile.

Il governo Berlusconi è nato su un’ambizione che merita di essere sottolineata: mettere in campo il massimo di discontinuità possibile non solo rispetto ai governi del centrosinistra, ma soprattutto rispetto a quella che potremmo definire la cultura politica costituzionale e che, sul piano sociale, potremmo definire usando alcune parole chiave: coesione, equità, concertazione.
Questo disegno è stato presentato agli elettori nella sua versione più affascinante: quella che prometteva una “liberazione” da vecchi lacci, un interpretazione più dinamica della modernità, una superiore capacità di far competere il “sistema Italia” all’interno del mercato globale. Con una premessa implicita: le elites sociali, i ceti più forti si sarebbero assunti l’onere di essere i protagonisti di questa “svolta” – si potrebbe dire “rottura” – e dunque loro sarebbero stati il perno del nuovo blocco sociale che avrebbe dovuto sorreggere questa politica. Una scelta che di per sé connotava il governo come espressione delle destre.
Non a caso i primi provvedimenti legislativi si sono rivolti in questa direzione. Misure mirate a rendere più forte l’alleanza con le categorie sociali che si intendevano privilegiare.

Dopo è iniziata la scandalosa stagione delle “leggi ad personam” – falso in bilancio, rogatorie, Cirami – forse sulla scorta di una convinzione che fosse possibile una sorta di scambio: ho pensato ai vostri interessi, adesso penso ai miei. E nel frattempo si è governato. Male. In pochi mesi, in particolare, è franato il pilastro sul quale Berlusconi e Tremonti avevano costruito la loro politica economica: la presunzione di uno spontaneo arricchimento del Paese in ragione del successo elettorale del suo Presidente e del suo modello di vita. Il risultato è stato devastante: Tremonti prima ha cominciato a “dare i numeri”, evocando il fantomatico buco ereditato – a suo dire – dai governi precedenti; poi ha cercato di nascondersi dietro la congiuntura internazionale, non riuscendo a spiegare, tuttavia, perché la realtà italiana sia oggi di gran lunga peggiore di quella di altri paesi europei.
Infine ha evocato una forte aspettativa di condoni con il risultato di rilanciare l’evasione e abbattere le entrate erariali.
In questo quadro il governo ha varato la sua Finanziaria: un monumento alla sua disfatta, uno zibaldone contraddittorio ed inefficace, che segna, tuttavia, una nuova tappa: dal governo delle destre siamo passati a quello degli incompetenti che dietro la facciata di un populismo male assortito cercano di sopravvivere al proprio fallimento.

Ora il governo degli incapaci vive con affanno anche gli appuntamenti di un Parlamento in cui dispone di enorme vantaggio numerico. La sconfitta subita venerdì sulla politica sanitaria non è stato né il primo né l’unico segnale di disfacimento politico.
Aveva ragione Indro Montanelli quando spiegava che il modo migliore per svelare il bluff di Berlusconi era farlo governare: gli italiani, anche quelli che avevano creduto al grande sogno, ora toccano con mano la realtà. Non ce ne compiacciamo, perché siamo un’opposizione responsabile e sappiamo il prezzo che il paese dovrà pagare per le inadempienze, i ritardi, gli errori di oggi.

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