La guerra non si vince soltanto con le armi

Camera dei Deputati, 19/05/1999

 

Signor Presidente, abbiamo sostenuto con grande convinzione l’azione del Governo italiano, l’attuale ed il precedente, per riportare la pace nel Kosovo; in particolare dopo l’impasse di Rambouillet, abbiamo condiviso il giudizio secondo il quale, per risolvere la crisi nei Balcani, per interrompere la guerra di sterminio condotta dal governo serbo contro i cittadini kosovari di etnia albanese, non fosse sufficiente l’azione politico-diplomatica ma fosse necessaria un’azione militare.
Abbiamo condiviso, ed esplicitamente condividiamo, il fondamento di legittimità dell’azione militare da parte della NATO, in ragione del principio dell’ingerenza umanitaria ed in forza della violazione dei diritti umani, individuali e collettivi, da parte del governo serbo, che ha contravvenuto alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 1998.
Restiamo convinti che, per fermare la violenza di un governo sulla sua popolazione, il massacro e la deportazione di un popolo, la violazione palese e sistematica dell’atto finale di Helsinki, sia assolutamente legittimo che le organizzazioni internazionali si facciano carico di un’iniziativa di contrasto militare. Ma con la stessa chiarezza abbiamo sempre sostenuto che da sola l’azione militare non avrebbe potuto risolvere la questione aperta nella Jugoslavia.
Per queste ragioni abbiamo espresso ed esprimiamo sostegno a tutte le iniziative politiche per le quali il governo italiano ha dato e dà in queste ore il massimo contributo. Il nostro obiettivo vero, lo abbiamo sentito riconfermare dal Presidente D’Alema questa mattina, non è sconfiggere la Jugoslavia e non è neppure l’acquisizione di un qualche maggiore prestigio, né il desiderio di rassicurare l’opinione pubblica internazionale circa l’inossidabile fedeltà dell’Italia all’Alleanza atlantica, anche perché il nostro Governo non ha bisogno di questi riconoscimenti. Il vero obiettivo per il quale il Parlamento italiano e gli italiani condividono il ruolo politico e militare in questo conflitto è di interrompere i massacri, di favorire il ritiro delle truppe serbe, di restituire le case ai profughi, o almeno il territorio coperto da macerie, dove sorgevano le loro case, di restituire la garanzia di un regime di sicurezza per gli abitanti del Kosovo di etnia albanese.
Se questo è l’obiettivo vero, noi abbiamo il dovere di valutare quale sia lo strumento più efficace per conseguirlo; nessuno può spendere certezze su questo terreno, ma è ragionevole che solo una combinazione intelligente e duttile di azione militare e di azione diplomatica può avere successo. In questo senso, dopo due mesi di bombardamenti, non può essere censurato come un atto di slealtà il tentativo di chi propone, in un Parlamento libero, non già un consuntivo dell’azione militare, ma una serena valutazione dei dati disponibili. Alcuni di essi mi sembrano indiscutibili.
Le strutture offensive serbe sono certamente indebolite, ma non annientate, forse un milione di profughi premono sul confine dell’Europa offrendo al mondo uno spettacolo apocalittico di miseria e disperazione. L’economia ed il complesso delle strutture dell’organizzazione civile della Jugoslavia sono in ginocchio; le vittime civili crescono con progressione geometrica per gli ineluttabili errori che la guerra aerea comporta e anche per alcuni errori che, forse, ineluttabili non sono. Quest’ultima condizione è destinata con ogni evidenza a crescere con assoluta e inarrestabile velocità. Ma le scelte che noi vorremmo indicare al Governo non debbono fondarsi sulle emozioni, che pure sono legittime, signor Presidente, perché sarebbe davvero strano se una tragedia come l’attuale, che interroga e sollecita acutamente la coscienza dei cittadini italiani – anzi credo dei cittadini di tutto il mondo – non producesse dubbi e inquietudini nel Parlamento libero di un paese che ha fondato nel valore della pace la Carta fondamentale della sua convivenza.
A noi non spetta, tuttavia, un trasferimento acritico di sentimenti di crescente avversione nei confronti della guerra nei Balcani, che si avverte nei cittadini italiani; non è sulle emozioni che dobbiamo fondare il nostro giudizio e le nostre decisioni, bensì sulla maggiore efficacia della via diplomatica in questa fase del conflitto rispetto a quella militare.
Il presidente D’Alema questa mattina ha illustrato un progetto serio, di forte iniziativa, per incardinare nel Consiglio di sicurezza dell’ONU il massimo della responsabilità e dell’iniziativa politica, per riproporre e sviluppare i contenuti e le indicazioni approvate nella riunione del G8, per coinvolgere nella responsabilità di un progetto organico di pace nei Balcani i governi cinese e russo. Noi siamo favorevoli a questo suo progetto, signor Presidente, e intendiamo sostenerlo con tutta la nostra convinzione. Pensiamo che questo obiettivo possa essere facilmente raggiungibile se, in breve tempo, verranno sospesi i bombardamenti, non per una tregua fine a se stessa, non per una resa, ma per offrire le migliori condizioni alle iniziative che lei ha proposto e alla definizione di un accordo all’interno del Consiglio di sicurezza e, insieme, per offrire alle autorità serbe l’opportunità di valutare lucidamente i termini della situazione.
Noi non abbiamo alcuna certezza, signor Presidente, che ciò possa verificarsi. Noi non abbiamo nessuna certezza che una sospensione dei bombardamenti possa favorire il progetto che lei qui ha rappresentato; forse ciò sarà anche inutile. Ma qualcuno può sostenere con certezza il contrario, cioè che una pausa dell’azione devastante di bombardamento aereo per qualche settimana possa impedire la pace, possa ritardare e compromettere l’obiettivo di un accordo diplomatico? Credo che nessuno possa avere tale certezza. Capisco la diffidenza dei titolari dell’azione militare per quella che può apparire un’indebita intrusione su tali scelte; capisco meno la diffidenza di quanti hanno responsabilità politiche.
Sommessamente, vorrei rappresentare il timore che vincere il conflitto esclusivamente attraverso la strada militare possa aprire scenari assolutamente devastanti e capaci di riportare l’Europa cinquant’anni indietro. Noi sosteniamo la nostra idea di una tregua finalizzata al progetto di pace in capo al Consiglio di sicurezza come un progetto politico ed un obiettivo che il governo dovrebbe ricercare all’interno dell’Alleanza Atlantica.
Pensiamo che sia un dovere del Parlamento italiano, del paese più direttamente coinvolto nel conflitto, far sentire ai governi alleati una voce e un’opinione forti e chiare. Dobbiamo fissare un obiettivo politico: il governo, entro i limiti e le difficoltà esistenti e nella complessità di un sistema di alleanze che nessuno pone in discussione, deve cercare la strada per renderlo possibile con le procedure proprie delle organizzazioni internazionali.
Signor Presidente, viviamo una fase di straordinaria incertezza nei riferimenti dell’ordinamento internazionale; le istituzioni del diritto internazionale e le organizzazioni che presiedono alla sicurezza appaiono in tutta la loro inadeguatezza rispetto a questo conflitto. Si tratta di istituti informati ad una storia conclusa, e la nostra generazione, i nostri Parlamenti, devono trovare un nuovo equilibrio, nuove forme e nuovi contenuti per regole che sappiano rispondere alle novità delle relazioni fra gli Stati, così come vanno disegnandosi in questa fine di secolo. In questa fase il ruolo dell’Europa appare in tutta la sua debolezza e nella congiuntura di un transizione fra due amministrazioni dell’Unione si avverte tutta la sua assenza.
La nostra adesione ideale e politica all’Alleanza atlantica è così radicata nel nostro patrimonio di storia e di cultura che riteniamo di avere, senza complessi e timidezze, il diritto e il dovere di pensare ad un rapporto franco e diretto con i nostri alleati per concorrere alle decisioni e non solo subirle, ed anche per partecipare alle responsabilità, come abbiamo fatto finora. La nostra speciale posizione nel Mediterraneo ci pone in modo imperativo il dovere primario di non commettere errori. Per tali ragioni, signor Presidente, confidiamo che la sua iniziativa abbia successo.

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