Ed ora serve andare oltre

La finanziaria per il ’97 viene approvata alla Camera in un clima di grande tensione fra maggioranza e opposizione. Il 20 novembre il commento sul Popolo.

 

Esiste una incredibile divaricazione tra il contenuto della manovra finanziaria e la percezione che gli italiani ne hanno avuto.
Ha prevalso nella sensibilità collettiva l’idea di uno scontro violentissimo intorno all’irriducibile dualismo tra una maggioranza sadicamente protesa all’imposizione di nuove tasse ed una opposizione fieramente ostile, tra un governo autoritario, minaccioso delle prerogative dei deputati e un’opposizione tenacemente attestata a difesa della democrazia parlamentare.
Se questo è il messaggio filtrato da Palazzo Montecitorio la responsabilità va tutta alla maggioranza e allo stesso governo, incapaci di un uso corretto della comunicazione politica. La questione sarebbe di poco interesse se potessimo confinarla dentro i limiti di un comune episodio di tensione parlamentare.
In realtà questa fase rappresenta uno snodo decisivo per la vita del governo Prodi, per la tredicesima legislatura, per il futuro del nostro Paese.
Dietro l’angolo c’è la nostra piena cittadinanza europea, il risanamento del nostro enorme deficit, la grande riforma dello Stato a cominciare dal Fisco, dall’Università, dall’organizzazione generale della pubblica amministrazione per avvicinare il cittadino alle istituzioni.
Dopo un quinquennio di sacrifici e di generale rallentamento del tenore di vita della comunità nazionale, dopo un complesso di manovre correttive iniziate dal governo Amato che hanno consentito all’Italia di avere il più alto avanzo primario tra le economie occidentali, siamo arrivati ad un passo dal traguardo. Sarebbe una tragedia se rinunciassimo; l’ingresso in Europa non è un problema di prestigio: è una convenienza per la nostra economia, per i nostri redditi, per i nostri risparmi, per le ambizioni che coltiviamo di vivere da protagonisti la modernità del nuovo secolo.
Per centrare questo obiettivo occorre l’impegno responsabile di tutti gli italiani, così come avviene in tutti i Paesi dell’Unione europea che in questi giorni vivono gli stessi nostri problemi. Il Governo Prodi ha consumato nei mesi scorsi le riserve di favore dei consueti cento giorni di luna di miele. La manovra economica, definita con qualche incertezza nella fase di avvio, produce in Italia così come avviene in Francia e in Germania, tensioni sociali e un discreto grado di impopolarità. Era prevedibile: quei settori della maggioranza che esprimono sorpresa denunciano una sgradevole ingenuità oppure una più sgradevole ipocrisia.
In verità il programma di governo deve dispiegarsi nell’orizzonte di un’intera legislatura con l’obiettivo di mettere al centro gli interessi del Paese e misurare su quel tempo il successo della coalizione.
E tuttavia a fine dicembre il governo Prodi avrà portato a termine una serie di interventi di risanamento della finanza pubblica per oltre 78 mila miliardi, senza intaccare i presidi fondamentali dello Stato sociale; l’inflazione sarà scesa al di sotto del 3%, i titoli di Stato andranno ancora a ruba nei mercati finanziari di tutto il mondo come avviene ininterrottamente da oltre un mese.
E’ un risultato straordinario per chi voglia valutare le cose senza pregiudizi di parte. Si è descritta la finanziaria come un insieme di tagli e tasse, tacendo che in essa sono contenuti provvedimenti di riforma dello Stato che realizzano un eccezionale processo di modernizzazione del nostro Paese. Dall’autonomia dell’Università alla legge sul non profit, dalla riforma della burocrazia, del servizio di leva, del federalismo fiscale, ect.
Il Polo ha sviluppato la sua opposizione non solo e non tanto in ragione di un diverso disegno (la cosiddetta “contro-finanziaria” è stata rapidamente accantonata!), quanto per la consapevolezza del rilievo economico e del carattere innovativo della manovra, per il timore di perdere la partita decisiva. Ha scelto i toni alti dello scontro frontale, esasperando i conflitti, portando all’iperbole i termini oppositori, invocando parole come “dittatura”, “colpo di stato”, “regime”, ect., abbandonando il Parlamento, coltivando il piacere della piazza come una droga, rinunciando infine alla politica. E così è venuto meno un qualsivoglia contributo propositivo come si conviene nelle democrazie dell’alternanza.
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Il dato elettorale e i rapporti numerici hanno consentito la straordinaria circostanza di un governo che trova il sostegno esterno di Rifondazione, senza rinunciare alla sostanziale coerenza con il Programma a suo tempo definito dall’Ulivo e non condiviso da Rifondazione. Non esiste un solo punto del nostro Programma sacrificato in questa manovra sull’altare del compromesso a sinistra. E’ vero il contrario.
La pretesa di una subordinazione del Governo alle richieste del partito di Bertinotti contrasta con questa circostanza. Per questo è poco serio pretendere che Rifondazione rinunci agli spazi di visibilità che il suo ruolo consente.
Per converso non ha fondamento la congettura che vuole i Popolari appiattiti sulla politica del governo: sarebbe davvero singolare se volessimo esaltare a tutti i costi le nostre diversità rispetto ad una compagine che attua il programma da noi presentato agli elettori, sotto la guida di un parlamentare del nostro Gruppo.
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Ora che la Finanziaria è stata approvata, che la maggioranza ha dimostrato di poter assicurare il governo del Paese, occorre andare oltre.
L’esperienza di queste settimane ha dimostrato quanto sia indispensabile una profonda riforma delle regole che presiedono al funzionamento della nostra democrazia.
Si sono confrontate in queste settimane, in una sfida non dichiarata, due tesi politiche.
La prima assumeva un qualche “scambio” nelle scelte di governo (variamente qualificato) come premessa per un favorevole decollo e per un utile approdo della Bicamerale.
La seconda, la nostra, fondata sull’assunto di una netta separazione tra l’ambito delle Riforme e quello del governo: per evitare che un interesse di breve periodo possa condizionare la riforma della Costituzione.
Le scelte di consociazione, che ineluttabilmente si nascondono dietro le infinite “aperture” del D’Alema dialogante o del partito – cerniera del gruppo Dini, sono oggettivamente preclusive della cultura costituente e riformatrice –
Esistono le condizioni per un serio lavoro della Bicamerale che sappia trovare quella grande motivazione morale che ha segnato le stagioni migliori della nostra storia.
Noi siamo impegnati a non sprecare questa occasione.

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