Coraggio, caro Romano il tuo Governo ce la farà

Il 30 maggio ’96, l’intervento in Aula alla Camera sulla fiducia al governo Prodi. Il ruolo che i popolari si assegnano all’interno della coalizione dell’Ulivo nella nuova stagione politica che si apre per il Paese.

 

Desidero esprimerLe, signor Presidente del Consiglio, il nostro favore e il nostro sostegno: non per uno scontato rituale, ma per la convinzione ragionata e intensamente vissuta dei Popolari italiani che si riconoscono senza esitazione nel programma e nella struttura del Governo.
Abbiamo ritrovato nel suo discorso il contenuto di una politica che abbiamo concorso a disegnare e per la quale abbiamo richiesto, ottendendolo, il consenso degli elettori.
E abbiamo ritrovato nello stile sobrio e insieme rigoroso del suo intervento i caratteri della politica temperata che pensiamo carattere indelebile del movimento dei cattolici democratici del nostro Paese ma che ha, nel nostro tempo politico, segnato uno schieramento assai più largo della cultura politica italiana.
Non è estraneo a questo dato, e questo approccio di equilibrio e di moderazione ma, insieme, di concretezza e di tolleranza, il successo dell’Ulivo.
Viviamo la stagione conclusiva di una grande transizione della storia italiana segnata da forti tensioni e contrasti radicali che hanno accompagnato uno straordinario cambiamento, profondo e diffuso della classe dirigente nel nostro Paese.
Avvertiamo insieme a Lei signor Presidente, il peso di una grande aspettativa alla quale vogliamo corrispondere senza l’enfasi di altre stagioni ma con la sincera consapevolezza dei nostri doveri.
Noi vogliamo confrontarci sul futuro del nostro Paese dentro quest’aula che intendiamo esaltare nella considerazione della sua centralità, non solo nell’ordinamento ma nella cultura democratica degli italiani.
Questo Parlamento accompagnerà il Paese al traguardo di fine secolo che, al di là della retorica, segna l’ingresso in una fase nuova e in larga misura inesplorata delle relazioni politiche.
Dovremo dare risposte ai bisogni consolidati negli ultimi decenni, ma insieme dovremo affrontare le nuove sfide.
Viviamo in tempo reale trasformazioni straordinarie.
Le parti politiche, l’insieme dei luoghi della politica, le convenzioni che hanno regolato una lunga fase della nostra storia repubblicana: tutto è profondamente cambiato.
E tuttavia nessuno può dire che l’approdo della transizione sia guadagnato, che per tutti sia consapevolmente acquisita la nuova architettura di riferimenti e appartenenze.
Noi coltiviamo l’ambizione di una nuova fase della nostra democrazia in cui le forze in campo siano ordinate secondo le ragioni vere del confronto politico, secondo l’offerta di governo che sapranno proporre in ordine alle grandi questioni della nostra modernità.
I problemi collegati ad una economia senza confini nel nostro pianeta, la divaricazione tra sviluppo e occupazione, la cultura della diseguaglianza, la concentrazione dei poteri di informazione, la pressione alla frontiera dei paesi ricchi di una crescente tensione migratoria, la competizione “salariale” tra nord e sud nel mondo, il conflitto tra pressione fiscale e spesa pubblica.
Queste e altre grandi questioni disegneranno la nuova geografia della politica in Italia e in Europa.
Noi partecipiamo con grande entusiasmo alla stagione che si apre, consapevoli dei doveri e dei vincoli derivati dal compiuto dispiegarsi del sistema maggioritario nel nostro Paese, che ha reso possibile una scelta chiara della coalizione di governo.
Siamo impegnati a garantire il massimo di sollecitudine e di intenzione per consolidare e accrescere le ragioni di questa alleanza.
Non ci sottrarremo ai vincoli della coalizione ma non rinunceremo a portare dentro questo Parlamento e nel Paese le ragioni dell’anima popolare dell’Ulivo.
Vogliamo dire con molta franchezza che riteniamo inaccettabili le tentazioni semplificatorie di chi pensa di stemperare la ricchezza di esperienze, di storie e sensibilità che hanno fatto vincere l’ulivo in un partito unico del centro sinistra.
Il problema, se posto in questi termini, rischierebbe di indebolire la maggioranza di governo ma soprattutto di frenare le grandi potenzialità che stanno dentro l’Ulivo.
Ma con la stessa franchezza occorre dire che nessun ritorno al passato è possibile nel segno di quel “grande centro” che molti nostalgici di una stagione conclusa si ostinano a coltivare come approdo di questa legislatura, sognando o tramando improbabili addizioni parlamentari.
I Popolari hanno scelto in modo sofferto e pagando un prezzo altissimo, la strada di una grande alleanza riformista con la sinistra democratica.
Da qui si parte.
E noi siamo interessati a percorrere fino in fondo la strada che abbiamo intrapreso due anni fa, con l’obiettivo di concorrere alla riforma e al rinnovamento della politica, nel segno della coerenza con la migliore storia dei cattolici democratici italiani.
Noi condividiamo la linea di politica economica enunciata perché non é derivata dai desideri e dalle emozioni, ma fondata sulle condizioni oggettive della nostra economia in rapporto al campo sterminato della competizione globale.
Gli elementi di novità nella congiuntura economica presente, le nuove stime intorno al processo di crescita della produzione per il presente e per il prossimi anni rendono ancor più ineludibili le scelte di risanamento annunciate.
Noi chiediamo al governo di perseguire con tutta la determinazione necessaria gli obiettivi di contenimento della inflazione, del fabbisogno previsto e dei tassi di interesse prima che l’unione monetaria prenda il via.
L’ambizione a far parte a pieno titolo dell’Unione Europea non rappresenta per noi un inutile trofeo ma la premessa essenziale per conservare i traguardi di civiltà e benessere che hanno segnato la storia italiana negli ultimi 50 anni.
Rifiutiamo la congettura di una dicotomia irriducibile tra risanamento dei nostri conti e del nostro bilancio con la conservazione delle principali conquiste dello stato sociale nel nostro Paese. E’ vero il contrario: la deriva cui saremmo costretti da un distacco dall’Unione Europea metterebbe brutalmente in crisi i pilastri della nostra organizzazione economica e sociale.
Per conservare lo stato sociale occorre riformarlo, cancellare tutte le degenerazioni clientelari, conferire efficienza e produttività, rimuovere sprechi e arbitrio, promuovere responsabilità nelle sedi decisionali della spesa.
Ma questa riforma dello Stato sociale non deve allargare la forbice dell’ingiustizia, deve invece ridurla nello spirito di una cultura della coesione opposta a quella della diseguaglianza.
Dentro questa prospettiva abbiamo apprezzato il richiamo del Presidente alla necessità di misure serie e coordinate per una riduzione della spesa pubblica informata alla maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione, al rapido e puntuale governo di quei centri irresponsabili di spesa che hanno concorso in misura decisiva all’elenfantiasi del debito pubblico e, non ultimo, alla volontà di rendere sempre più decisa la lotta contro l’evasione fiscale.
E tuttavia noi pensiamo che questo non sia sufficiente se non si attiverà con risolutezza il processo di privatizzazione da tempo programmate.
Proceda il Governo secondo le intenzioni dichiarate, con sollecitudine, perché gli effetti desiderati sui conti pubblici non siano solo un auspicio.
Esamini il Governo, valuti se non sia praticabile estendere questo processo, per il futuro, con tutta la prudenza e le garanzie necessarie, anche ad altri segmenti della pubblica amministrazione non costituiti in impresa che, con minori costi, potrebbero essere affidati ai privati.
Sarà questo argomento oggetto di un confronto che io spero fecondo e sereno.
Ma fin da questo momento, al di là della ostentazione di sdegno da parte dell’on. Martino, anche ieri manifestata nel suo brillante intervento, sarebbe importante una manifestazione chiara di volontà da parte del Polo in questa materia.
Non ci interessa richiamare la pluralità di posizioni espresse in passato e non esiste davvero alcun intento polemico: conta sapere dai rappresentanti della destra italiana se ritengano di condividere, in questa fase, l’orientamento del Governo in materia di privatizzazioni.
Noi pensiamo che di fronte all’alternativa tra la cancellazione dello stato sociale e quella dello stato imprenditore, non si debba avere ulteriori incertezze.
Ma, insieme a questi orientamenti, abbiamo condiviso la scelta esplicita per una seria politica di concertazione con le forze sociali.
Non per una naturale propensione al confronto ma perché pensiamo che la pace sociale rappresenti non solo un obiettivo di civiltà ma anche un fattore decisivo per consentire la politica di risanamento dell’economia.
Un fattore dimostratosi decisivo negli anni passati per rendere possibile l’avanzo primario che segna, più di qualsiasi altro indicatore, il percorso compiuto dal 1992.
Spesso accade, nelle nostre discussioni, di sottovalutare il significato di questo percorso.
Nel 1992 abbiamo avuto una incredibile concentrazione di avvenimenti: l’uscita dell’Italia dal sistema monetario europeo, l’esplosione o la rivelazione di tangentopoli, una straordinaria tempesta del nostro sistema finanziario, l’esordio di una gigantesca svalutazione che ha ridotto il valore della lira del 40 per cento.
Potremmo chiederci perché, come mai il nostro Paese è riuscito a superare un rivolgimento così profondo.
Risponderemmo che in molti, soggetti politici, cittadini e istituzioni hanno ragioni per rivendicare un ruolo decisivo.
E tuttavia credo che altro sarebbe stato il destino del nostro Paese se non avessimo, tutti insieme, privilegiato la strada della coesione, del negoziato, del patto sociale.
Ma questo, signor Presidente, appartiene al passato.
Il presente è scandito da nuove tensioni, da nuove domande, spesso contraddittorie che si manifestano nelle diverse aree del Paese.
Certo mi sembrano eccessive le tinte forti con le quali ieri il prof. Colletti disegnava la situazione italiana.
Non perché abbiamo improvvisamente indossato gli occhiali rosa con l’intento di nascondere le asprezze e le difficoltà del nostro tempo, ma perché non crediamo giovi alla causa l’esasperazione dei giudizi.
Esistono diffusamente, al nord e al sud, ragioni di disagio che sono vissute come una questione di cittadinanza incompiuta o compressa.
E’ cresciuto, nel comune sentire dei cittadini, il desiderio di un profondo rinnovamento dello Stato, della sua organizzazione, della sua proiezione intrusiva nella vita di tutti i giorni: in fondo un bisogno di partecipazione e di affezione con le istituzioni.
Si dilatano e premono nuovi problemi e nuove contraddizioni nella nostra costituzione materiale, economica, ma non solo economica; appaiono sempre più inadeguati quell’insieme di compromessi sociali, di meccanismi regolatori della comunità civile che hanno accompagnato una lunga stagione espansiva dell’Italia repubblicana.
I cambiamenti profondi dell’economia, dell’architettura sociale, dei modelli culturali, delle capacità di relazione, sostengono ed alimentano questo disagio.
E questo sentimento di cittadinanza incompiuta disegna una nuova domanda politica dagli esiti imprevedibili.
Si alternano ed alimentano suggestioni e provocazioni che frammentano e disperdono straordinarie energie intellettuali, economiche, politiche.
Mi sembra che in molti si lascino tentare dalle sirene di un facile consenso oppositorio guadagnato cavalcando la tigre del ribellismo.
L’idea della secessione più che una proposta, nasconde una rinuncia.
Noi pensiamo che il compito della politica oggi risieda nella ricerca di una ricomposizione, di un progetto di nuova unità, in una proposta di governo e di riforma.
Noi scegliamo il rischio della politica.
Dobbiamo aggiornare e riformare i caratteri di un forte Stato democratico nel quale tutti gli italiani si riconoscano: uno Stato autorevole, più efficiente e trasparente, libero da inutili e improprie funzioni.
Noi crediamo che esistano in questo Parlamento, nel Paese, risorse politiche ed intellettuali per vincere questa sfida.
Cominciando dalla questione del lavoro: non come fattore della produzione, ma come diritto negato a quasi tre milioni di italiani.
Siamo consapevoli del fatto che la disoccupazione, che tutti invochiamo come emergenza primaria del nostro Paese, abbia una precisa origine strutturale in ragione dello straordinario progresso tecnologico e della estensione globale dei processi economici, capace di produrre una diversa distribuzione internazionale del lavoro.
Noi non apparteniamo a quella setta di neoluddisti – che qualche volta si avverte presente anche in quest’Aula – che immagina di ostacolare il corso della storia introducendo barriere allo sviluppo degli scambi e dell’innovazione.
Eppure non vogliamo rassegnarci alla prospettiva di uno sviluppo senza occupazione.
Le statistiche dicono che il problema è estremamente grave in tutti i principali Paesi europei. Ma la disoccupazione giovanile in Italia è quasi sei volte superiore a quella tedesca, oltre due volte quella della Gran Bretagna, oltre un terzo più di quella francese. E in Italia questo esercito di giovani senza lavoro si concentra nel Mezzogiorno e nelle isole.
La combinazione di questi due elementi – la prevalenza giovanile e la concentrazione territoriale – fa assumere al problema caratteri davvero eccezionali e alimenta una miscela terrificante per le prospettive del Paese.
La questione dell’occupazione e quella del Mezzogiorno si sovrappongono e invocano una risposta di Governo né timida né incerta.
Noi confidiamo che le indicazioni fornite, nella sua replica al Senato, dal Presidente del Consiglio possano trovare una rapida traduzione in atti di Governo e proposte di legge.
Abbiamo la consapevolezza che non può esistere una politica per il Mezzogiorno che non si accompagni e si integri in una politica generale per tutto il Paese, che ne accresca le caratteristiche di competitività e di tenuta: ma, insieme, sappiamo che non esiste un destino virtuoso se si rinuncia alla difesa nei fatti dell’unità nazionale, se non si rimuovono le ragioni strutturali del dualismo italiano.
Occorre recuperare il consenso intorno all’identità del Paese e occorre farlo attraverso l’Europa; non solo per adeguarci ai suoi parametri, con riferimento al debito e alla finanza pubblica, ma avendo nella sostanza l’obiettivo di diventare un Paese oggettivamente e concretamente europeo.
Dobbiamo promuovere un patto di comune responsabilità che è insieme un patto di comune cittadinanza: e accettare tutti i sacrifici che una simile scelta richiede.
L’alternativa consiste nella rassegnata deriva di una frammentazione senza futuro.
E la conservazione dell’unità nazionale che si accompagni al consenso popolare passa attraverso un processo riformatore serio e rigoroso.
Noi condividiamo le indicazioni del Presidente in ordine all’obiettivo di Riforma dello Stato in senso federale, nel segno di un federalismo solidale e cooperativo.
Il Federalismo, la diffusione e la separazione dei poteri non è ambizione esclusiva di una parte del nostro Paese.
Ho sentito più volte la congettura che assegna al nord del Paese l’interesse per una appropriazione di poteri e di responsabilità nelle decisioni, nelle leggi, nel governo del proprio destino e, invece, al Mezzogiorno una vocazione inossidabile per lo Stato centralista dispensatore di favori e di assistenza.
Questo schema può forse soddisfare gli umori esasperati di molte tifoserie, ma non corrisponde alla verità.
Gli italiani che vivono nel Mezzogiorno nutrono l’ambizione di una cittadinanza europea a pieno titolo, che si dispieghi dentro una cornice di pari opportunità, senza favori o assistenza, ma senza i vincoli di un divario strutturale che limita la libertà e falsa la concorrenza, che disperde talenti e risorse.
Gli italiani del sud e del nord hanno l’ambizione di partecipare ad uno Stato che attraverso la diffusione dei poteri e delle responsabilità, sappia garantire a tutti uguali chances e uguali diritti.
Sarà questa una legislatura di riforme che porta a sintesi e compiutezza un lungo lavoro.
Il tema, riproposto in questi giorni dall’on. Berlusconi, della Assemblea costituente come percorso privilegiato per le riforme, ha occupato come era prevedibile una parte significativa del confronto politico.
Noi pensiamo che la proposta non sia di per sé esecrabile – come ha sostenuto Martinazzoli – ma neppure necessariamente encomiabile.
Può essere oggetto di ulteriore discussione se sapremo vagliare, senza pregiudizi, la compatibilità e praticabilità di una separazione del potere costituito rispetto a quello costituente con i costi di un ineludibile rinvio nel tempo delle risposte da subito possibili ma anche del rischio, non del tutto contenibile, di innescare un processo conflittuale tra due assemblee rappresentative che traggono legittimazione dallo stesso corpo elettorale.
E tuttavia questo confronto avrà un senso se riusciremo a tenerlo nelle dimensioni dei sereni ragionamenti della politica, sottraendolo alla tentazione che abbiamo avvertito di aprire una nuova stagione informata al sentimento di rivincita.
L’on. Berlusconi ha coltivato questo sentimento per tutta la durata del Governo Dini ed ha in qualche modo disperso, anche per questa ragione, la forte carica di innovazione che il suo schieramento poteva conferire alla politica italiana.
Noi confidiamo che l’avvio di questa legislatura si verifichi nel segno di una migliore qualità delle relazioni politiche tra la maggioranza e l’opposizione.
In questa fase il Presidente del Consiglio gode di quella che si chiama, impropriamente, “stato di grazia”…
Esiste una generale disponibilità, un generale credito nei suoi confronti assai più esteso dell’area politico parlamentare della maggioranza.
Usi, signor Presidente, di questa disponibilità e di questo credito, certo con prudenza e misura, ma insieme, con coraggio.
Con molto coraggio.
Questa è, insieme, una esortazione e un augurio.

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