L’Europa che vogliamo, l’impegno che chiediamo

Un articolo sull'”Unione Sarda” del 12 dicembre ’95. Dove ci condurrà la reciprocità di un destino che ci obbliga positivamente, ormai, a un contesto di scelte economiche, civili e politiche che superano l’ambito del contesto nazionale.

 

L’interesse della politica nazionale per il semestre europeo a guida italiana sembra inestricabilmente ancorato al tormentone del calendario elettorale.
Il recente dibattito parlamentare di indirizzi al governo ha reso visibile in tutta la sua consistenza il grande partito dell’euroindifferenza e, insieme, una incredibile sottovalutazione del legame di reciprocità che lega il nostro destino a quello dell’Unione Europea.
Eppure esiste uno straordinario intreccio di convenienze per il nostro Paese intorno all’appuntamento della costruzione dell’Unione politica europea.
Viviamo una fase di transizione tra il vecchio processo di integrazione legato alla guerra fredda e il nuovo che sta per aprirsi.
La conferenza intergovernativa di Marzo fisserà i caratteri dell’Unione politica, le condizioni per tradurre l’Europa degli Stati nell’Europa dei cittadini.
E la cornice di riferimento non è quella arida delle cifre che spesso accompagnano le discussioni su questi argomenti, ma la straordinaria tensione, che agita la società europea, il processo di cambiamento dell’organizzazione sociale, il crescente dominio di una nuova cultura della disguaglianza.
La vera integrazione si giocherà sul terreno delle regole che presiedono alle garanzie della persona, delle famiglie, delle realtà intermedie.
In questo quadro può trovare risposta la domanda di sicurezza, di giustizia, di equità fiscale che sale poderosa in tutte le regioni del continente.
Ma soprattutto possono conservare la speranza quei diciannove milioni di uomini e di donne che non hanno lavoro.
Siamo consapevoli che il nostro Paese deve fare uno sforzo straordinario perché coincidano le nostre esigenze di risanamento del Bilancio pubblico, di riorganizzazione interna con l’appuntamento fissato a Maastrich, per mettere in regola i nostri “parametri” con le disposizioni certo un po’ draconiane ma sostanzialmente indispensabili che presiedono all’unione monetaria.
Anche per l’Italia la consuetudine di finanziare un eccesso di spesa pubblica attraverso l’emissione di nuovo debito è ormai giunta alla fine e la prospettiva dell’unione monetaria costituisce, soprattutto per i Paesi debitori, l’occasione di una strada non eccessivamente costosa per uscire dalla loro difficoltà.
La sostituzione della moneta italiana con la moneta unica rende possibile in un tempo relativamente breve, che anche in Italia i tassi d’interesse si adeguino a quelli prevalenti in Europa centrale (tra il 4 e il 6 per cento) con risparmio valutato in centomila miliardi (5 punti di PIL quando questo processo fosse realizzato, esattamente tre volte l’attuale manovra in discussione nel Parlamento).
Per questo non va demonizzata l’ipotesi che il percorso di allineamento previsto in tre anni dal nostro documento di programmazione economica e finanziaria debba essere contratto in un biennio: la manovra dell’autunno 96 sarebbe quindi doppia di quella prevista (intorno ai 70.000 miliardi).
Nessuno può sottovalutare il costo sociale di una azione di governo così decisa.
Né una scelta diversa – la rinuncia alla convergenza entro la data fissata – avrebbe un esito più gradevole per le tasche degli italiani e per la tenuta del nostro sistema.
Usciremmo dall’Unione europea con effetti drammatici sulla nostra moneta, sul differenziale degli interessi e dei cambi, spingendo ineludibilmente l’Italia verso l’avventura.
L’una e l’altra ipotesi (in realtà non esistono alternative!) non possono essere affrontate alla vigilia di un confronto elettorale.
Per queste ragioni appare illusoria e superficiale la prospettiva di quanti inseguono un rinvio delle elezioni politiche al 1997.
Mi pare che sia tempo di ribaltare la consuetudine che usa l’Europa come un pretesto per coprire il piccolo cabotaggio interno e vada invece praticata una politica nazionale di rigore per affermare il nostro diritto di cittadinanza europea.
Più in generale, se avvertissimo il bisogno di sollevare il profilo del nostro confronto politico, potremmo cogliere più nitidamente il senso della nostra condizione.
La nostra epoca – il che concretamente vuol dire ciascuno di noi, di questa generazione e di quelle immediatamente future – si trova di fronte ad un bivio. O sottoscrivere la concezione del mondo come comunità, accettando tutti i sacrifici che una simile scelta richiede, oppure favorire la nascita di una società sempre più frammentata e stratificata, vero trionfo della “civiltà” della disguaglianza.

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