Lettera a Savona

Lettera a Savona, 9 luglio 1993

 

Conservo molta stima per il Prof. Savona e trovo fuori luogo il tiro al piccione in corso da qualche settimana: quasi che i guai della nostra industria fossero nati con il nuovo Ministro.
Ma il Ministro ha lanciato molti sassi e qualche macigno: sarebbe ingiusto tacere il dissenso.
Mi pare volutamente provocatoria la semplificazione di una presunta alternatività tra due modelli di sviluppo: grande contro piccola industria, alta intensità di capitale contro alta intensità di occupazione, industria contro servizi.
E però certamente utile per scuotere l’inerzia di un dibattito interamente consumato nella gestione dell’emergenza e spessissimo condizionato negli esiti dalla volontà di attutire la tensione sociale.
Trovo impropria la rappresentazione di una economia sarda incardinata su un apparato di grande industria, idrovora di risorse pubbliche, affannosamente mantenuta in vita da trasferimenti assistenziali.
Un flash back degli anni 60.
Il modello che ha presieduto alla prima industrializzazione sarda è archiviato ormai da tempo: non giova al presente il censimento degli insuccessi e delle responsabilità, né agevola il nostro compito attuale la sottolineatura, ovvia e scontata, dell’enorme progresso derivato alla società sarda dalla legislazione di rinascita.
Negli anni più recenti è maturato un nuovo orientamento della programmazione regionale a favore di un modello integrato, centrato sulla necessità di accrescere la produttività del sistema attraverso la ricerca e l’innovazione, decisamente orientato in favore della piccola e media impresa per i suoi caratteri di flessibilità e di maggiore governabilità.
Per ridurre le diseconomie connesse all’insularità, per reggere le prospettive di una competizione ineluttabilmente selettiva, si è deciso di privilegiare le produzioni con alto contenuto di valore aggiunto e con attitudine all’esportazione. Nessuno può considerare indifferente il parametro capitale-occupazione, ma rispetto alla tenuta durevole sul mercato è certamente subordinato ai precedenti.
Saremmo ridicoli se dicessimo che il modello scelto corrisponde alla realtà presente e neppure sostengo che tutti gli atti di governo compiuti sono stati coerenti con l’enunciazione.
E i tempi dell’Amministrazione regionale sono quasi sempre fattore negativo.
Ma il quadro è profondamente modificato.
Rispetto al passato si è fortemente ridotto il peso della grande industria (28 per cento sul totale) e le recenti privatizzazioni stanno eliminando dalla nostra prospettiva le PP.SS (che comunque incidono solo per il 26 per cento sul totale dell’industria manifatturiera).
La Regione ha prodotto nell’ultimo triennio una legislazione moderna e agile per il sostegno alle piccole e medie imprese articolando una pluralità di aiuti dentro il tetto comunitario vicariando in larga misura il progressivo disimpegno dello Stato nell’intervento straordinario per il mezzogiorno.
Molte di queste leggi stanno per andare a regime e la loro efficacia sarà misurabile solo nei prossimi anni.
Gli investimenti industriali in Sardegna a cavallo dei due censimenti sono cresciuti del 5,2 per cento (tasso medio di variazione annuo) contro lo 0,8 per cento della media nazionale.
La gran parte di questi investimenti sono stati effettuati dal sistema imprenditoriale locale.
Il valore aggiunto in Sardegna ha registrato, nell’ultimo decennio, un tasso di crescita del 4,1 per cento a fronte del 2,4 per cento della media nazionale.
Questi dati configurano un quadro di riferimento affatto diverso da quello presente negli anni 60-70, pur scontando, come naturale, i costi della congiuntura recessiva internazionale e i limiti connessi alla debolezza strutturale dell’economia sarda.
Questa debolezza rappresenta il problema più acuto intorno al quale non è concesso disertare quando si abbiano responsabilità di governo.
Dalla crisi non si esce lasciando deperire l’esistente, aggiungendo diecimila disoccupati all’esercito dei senza lavoro, alimentando tensioni sociali da tempo prossime alla soglia del ribellismo.
Tuttavia non tutto il presente dell’industria sarda può essere conservato: e non servono neppure le proteste quando non si accompagnano a ragionamenti persuasivi.
Dovremmo forse ridurre l’enfasi dei comizi in piazza e privilegiare gli argomenti della ragione: da questi emergerà che non può ridursi ad un’unica categoria di giudizio la pluralità di fattispecie presenti nel panorama sardo: non tutte le crisi hanno la stessa natura e non tutte sono suscettibili di uguale prospettiva.
La prospettiva, la vitalità devono essere regolate dalla bussola del mercato purché si abbia presente che il mercato non nega l’esistenza del governo degli Stati.
E il Governo più che indire referendum su ipotesi astratte e radicali ha il compito di modulare tutte le scelte per ridurre l’impatto socialmente duro clic la presente congiuntura necessariamente produce.
Se la dislocazione territoriale dei siti produttivi risanabili all’interno di un comparto propone una qualche alternativa, non e necessario considerare sempre eccedente quel che risiede in Sardegna.
Ne si puo risolvere la crisi rinviando a responsabilità sterne: chi governa lo Stato faccia la sua parte, perche le responsahilita a valle sono già tante e prima fra tutte il dovere di separare nettamente le politiche attive del lavoro dal sostegno all’impresa.
Nei momenti piu difficilii si mettono in campo tutte le risorse positive dell’intelligenza politica e della competenza: quel che non serve, concordo con il Ministro Savona, e il conflitto gratuito.

 

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