La Politica per il Cristiano

Relazione svolta in occasione delle celebrazioni del centesimo anniversario della “Rerum Novarum”, Nuoro, 12 marzo 1991

 

Non so dire se mi sarà possibile trattare con il giusto rigore il tema assegnatomi: non solo perché sono privo della necessaria competenza dottrinaria, ma anche perché ho presente la tentazione, frequente in queste occasioni, di un approccio intellettualistico e spesso astratto. Cercherò di evitare questo rischio, non allontanandomi dalle esperienze nostre, di vita e di cultura, nelle quali le circostanze della coerenza sono più facilmente apprezzabili.

E tuttavia io voglio dire subito di una tendenza presente nella società italiana: quella di una visione riduttiva della politica intesa il più delle volte come fatto esterno, distinto da noi, dimensione non etica e innaturale per il cristiano.

Ad un atteggiamento di diffidenza verso le istituzioni e di sfiducia nei confronti della politica, fa riscontro una dichiarata, ostentata preferenza da accordare alla società civile, in quanto luogo nel quale più autentica sarebbe l’espressione di idealità e la vocazione ai comportamenti affidabili.

In realtà alle spalle di questo atteggiamento c’è una sempre più diffusa visione della storia improntata al pragmatismo. Il declino delle ideologie che hanno alimentato i conflitti e le passioni di questo secolo rappresenta causa ed effetto insieme del diffondersi di questa concezione. E così si vanno riducendo gli spazi e le occasioni per sottolineare le distinzioni e per cogliere nei comportamenti e nelle scelte una qualche finalità.

Ne consegue una congettura: – che tutti i partiti siano uguali; che nei partiti non conti o non esista alcuna idealità.
E se la società civile si differenzia sempre più in mille segmenti sociali, culturali, economici, se diventa sempre più complessa e contraddittoria, la politica sembra destinata ad essere non già un momento unificante di sintesi e di mediazione, ma semplicemente il luogo del trasferimento, più agito che agente, degli interessi delle innumerevoli corporazioni.

Tuttavia dobbiamo dire che se privata di distinzioni e di idealità, la politica entrerebbe in eclissi.
E si allargherebbe lo spazio per la immoralità.
Sembrerà paradossale, ma la storia dei partiti ideologici, fortemente motivati ideologicamente, ha coinciso nel nostro Paese con il massimo di moralità della politica.
Il declino delle ideologie rischia di coincidere con il declino dell’idealità nella vita politica. Ma bisogna che ci diciamo con molta franchezza che se questa congettura circola nel nostro Paese e sempre di più si deposita nella coscienza popolare, una qualche ragione i partiti l’avranno pur data.
Io credo che abbiano concorso e concorrano, in un rapporto circolare, fattori interni e fattori esterni alla politica.

In questo contesto la cultura dominante propone modelli più facili e più sbrigativi e spinge la politica fra le cose spiacevoli di cui non è opportuno occuparsi, se non per giudicarla.
Io penso che il cristiano non possa condividere né dirsi soddisfatto di questo stato di cose.
Può darsi che questo risultato di delegittimazione della politica, dei partiti, ma anche dei sindacati, possa anche essere conveniente per qualcuno.

Certamente quando il sistema politico su cui poggia la nostra democrazia perde terreno, il potere reale si trasferisce altrove, in un ambito certamente più ristretto, quando non occulto.
E in un tempo in cui fortissima è la concentrazione del potere economico e di quello dell’informazione, in un tempo in cui le due concentrazioni spesso coincidono, non mi rasserena pensare al progressivo rischio di indebolimento del sistema politico. Questa considerazione non ha pretese assolutorie per la politica e tanto meno per i partiti. Anzi è la premessa per maturare un impegno maggiore, più convinto e determinato, in direzione della riforma della politica.
E allora dobbiamo fare uno sforzo di riflessione ulteriore per guardare al problema da una diversa angolazione.

Dobbiamo fare un tentativo di ricognizione libera e senza pregiudizi sulle ragioni più profonde della nostra motivazione.
E’ compito di tutti, ma forse più impegnativo e più urgente per chi si professa cristiano.
Per il cristiano la politica è una dimensione naturale perché rappresenta l’animazione cristiana del temporale.
Il temporale, come dice Lazzati, è la città. E la città è ogni aggregato umano, dal più piccolo al più grande: dal quartiere al Comune, alle Regioni, allo Stato, alla Comunità internazionale. Al centro della città c’è l’uomo come persona.
Il concetto di persona implica una realtà spirituale, è per sua natura realtà di relazione: -orizzontale, con gli altri uomini; -verticale, con tutto ciò che trascende.

Questa realtà di relazione, insita nell’uomo in quanto persona, implica la dimensione politica come dimensione naturale. Se l’uomo-persona è il centro delle città, ne discende il suo interesse e quindi il suo impegno per la costruzione di una città che sia a sua misura.
L’uomo è quindi naturalmente partecipe dell’attività politica.
Il Magistero in questo senso -è stato ricordato- è divenuto sempre più esplicita fonte di ispirazione e di giudizio.

Basterà richiamare la grande svolta del Concilio, della Gaudium et Spes. Rovesciando un modo comune di intendere, si afferma che la Chiesa è coinvolta nella storia.
La carità diventa un concetto anche storico e insieme cosmopolita.
Si aprono orizzonti inesplorati.
L’anelito e l’impegno per la Giustizia diventano per il cristiano impegno per prevenire e rimuovere il bisogno.

La Populorum Progressio e la Sollecitudo rei socialis hanno ulteriormente precisato questo indirizzo.
Ma dal Magistero dobbiamo richiamare un altro essenziale suggerimento, che preme sottolineare in questa occasione.

Due opposte tentazioni sono da evitare:
-l’individualismo e l’indifferenza che poggiano su una concezione dualistica che vorrebbe separare il cielo dalla terra, riservando ai cristiani le vie del cielo e lasciando agli “infedeli” quelle della terra;
-ma anche la tentazione integralista che fonda l’aggregazione politica su basi confessionali facendola discendere direttamente dai contenuti della Rivelazione.
E allora dobbiamo scegliere la strada, per molti aspetti più esigente, di ridisegnare per la politica uno spazio nuovo, coerente con le radici del messaggio cristiano, che sia un tentativo di ordinare, dare espressione e realizzazione alle aspettative sociali.
La politica diviene in qualche modo l’anticipazione o, se volete, il completamento dell’impegno cristiano di carità: è essa stessa una forma di carità.
“La fede e la carità – si afferma nella dottrina- devono crescere nonostante l’impegno, ma attraverso di esso”.
La testimonianza delle opere non può non chiamarsi anche impegno politico.
Costruire la società diventa un dovere che nasce dalla professione della fede. Diventa un modo per testimoniare la fede. Mi fermo qui. Sono consapevole del rischio di andare oltre. E mi avvio alla riflessione che più mi compete oggi, a cento anni dalla Rerum Novarum.
E’ necessario un grande sforzo da parte di tutti noi per comprendere le cose nuove con le quali si misura il cristiano impegnato in politica, e particolarmente sul fronte dei cambiamenti sociali, e verificare la risposta cristiana a quei cambiamenti. Giovanni Bianchi, credo, dirà di queste cose.
Però non posso tacere della sensazione che tutti noi abbiamo di essere entrati in un decennio straordinario, senza precedenti quanto a velocità di cambiamenti.
Un periodo di straordinaria innovazione tecnologica, un periodo di trasformazioni economiche velocissime e interdipendenti che hanno dato vita ad un sistema economico mondiale, un periodo di straordinarie riforme politiche e di grandi cambiamenti nel mondo della cultura.

Si dice che siamo entrati in un decennio che non somiglia a nessuno di quelli che l’hanno preceduto. Perché culminerà nella fine del millennio, l’anno Duemila. Da secoli questa data simbolica, monumentale, ha identificato la dimensione del futuro. In pochi anni ci saremo dentro: dentro il Duemila. Noi subiamo già l’influenza di questo appuntamento in un misto di suggestioni e di speranze, ma anche di sollecitazione forte a riguardare la nostra storia, la nostra cultura, l’insieme delle convinzioni e delle convenzioni che sembrano ordinare la nostra società. E’ giusto richiamare criticamente l’attenzione sulla cultura dominante, nella quale è preminente l’esaltazione del privato, la tendenza che induce a perseguire, singoli o gruppi, i propri interessi, prescindendo dal fatto che i mezzi utilizzati possano risolversi in danno per gli altri.

E’ il trionfo del consumismo, dell’edonismo, del successo inteso come un nuovo feticcio al quale inchinarsi, della competizione inarrestabile lungo un sentiero in fondo al quale non si vede un disegno.
L’esasperazione di questa tendenza è la più grande negazione della carità. Può essere allora necessario rivolgerci all’indietro e osservare lo scenario delineatosi nell’ultimo decennio.
I rapporti sociali si sono profondamente modificati in Italia. Anche in Sardegna esiste la società dei due terzi. Questo ha ribaltato i comuni toponimi della politica nel nostro Paese. Le maggioranze, i due terzi, hanno un lavoro, hanno soddisfatto i bisogni materiali, hanno spesso una seconda attività, posseggono denaro, casa, doppia casa, beni etc… Sono i grandi consumatori. Le minoranze, l’ultimo terzo, oltre a non possedere se non quanto garantisce loro livelli minimi di sussistenza, non possono neanche trovare una meccanica rappresentanza culturale e politica del loro bisogno. Ma se richiamiamo alle nostre coscienze l’invito a considerare la Chiesa, la carità nella sua dimensione universale, come autorevole soggetto collettivo discriminante del valore morale degli eventi, allora ci rendiamo conto che la cultura dei due terzi assume per noi non i connotati dell’ineluttabilità della storia, ma quelli consueti dell’indifferenza o dell’ingiustizia.

Chi sono quelli dell’ultimo terzo? I nuovi poveri? Sono lontani e vicini a noi: la gente del Terzo Mondo, le moltitudini di un popolo arabo sottomesso alle oligarchie e ai despoti di turno, violentati nel corpo e mortificati nella coscienza, “usati” per i loro sentimenti religiosi; e ancora quell’enorme colonna di popoli, una nuova colossale migrazione dal Sud al Nord e forse dall’Est all’Ovest. Più vicino a noi, gli emarginati della società industriale, i disoccupati, gli anziani, i tossicodipendenti, i detenuti dimessi dalle carceri, i sofferenti di malattie psichiatriche che non sanno trovare uno spazio di legittimità in cui vivere, i familiari dei detenuti dei nostri paesi di Barbagia, esposti all’odio e al giudizio sommario. In che modo dare rappresentanza ai nuovi poveri?

Come riconoscerli? Può essere questa una dimensione della politica. Ma non di qualsiasi politica. La selezione e il discernimento sono insieme impegno culturale e sensibilità umana, vissuta con l’intento di comprendere e farsi carico della storia, delle “gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini d’oggi”. Per questo dobbiamo fare della politica il luogo in cui coscienza e ragione alimentano la fede in una città costruita da ciascuno di noi.

E la città dovremo costruirla orientandoci in una società complessa dove gli interessi spesso sembrano prevalere sui valori.
E la gerarchia dei valori spesso appare incerta. L’avere, si dice, sembra prevalere sull’essere, le cose sulle persone, il potere sul consenso, l’interesse privato sul bene comune, l’individualismo sulla solidarietà, il giudizio e la condanna sulla misericordia e sulla comprensione, i diritti sui doveri, la vendetta sul perdono, la violenza sull’amore, il relativo sul trascendente.

E tuttavia anche se questa può apparire una tendenza inarrestabile, a me sembra di scoprire tutti i giorni, soprattutto nei giovani, un bisogno forte di invertire questa tendenza e ribaltarla, affermando i valori cristiani.
Ma la società complessa, all’interno della quale noi cerchiamo i mattoni per costruire la nostra città, è ricca di contraddizioni che in qualche modo ci coinvolgono tutti.

Tutti viviamo le contraddizioni della nostra società, dove non sempre appare chiara e univoca la linea di demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto.
E’ giusto accogliere i profughi albanesi? Accoglierli nelle regioni di un Meridione, dove già esiste oltre un milione di disoccupati, e quindi immetterli in una realtà debole o spesso degradata? Oppure rimandarli a casa, con tutto ciò che ne consegue?
E’ giusto il rigore nella manovra economica che punta a massimizzare gli elementi di razionalizzazione dei processi produttivi, l’automazione ecc., con l’espulsione certa, ineluttabile di percentuali crescenti di lavoratori occupati?
Per converso, è giusto conservare una impalcatura assistenziale nella legislazione di sostegno alla nostra economia?
E ancora, è giusto incrementare ulteriormente le risorse destinate alle politiche attive del lavoro sottraendole alle politiche di sviluppo? E ancora mi viene in mente il contrasto spesso irriducibile fra i progetti di sviluppo economico e il bisogno di salvaguardia dell’ambiente, fra la necessità di aprirci alla società dell’informazione, di conoscere i modelli, gli interessi e le aspirazioni dei popoli, e quella di conservare forte il valore della nostra identità. Ancora, le contraddizioni spesso dure e sofferte fra la necessità di assicurare il rispetto dell’ordinamento giudiziario che garantisce i diritti di tutti i cittadini, anche di quelli che hanno commesso delitti terribili, e il sentimento spontaneo, diffuso, di indignazione per gli effetti che talvolta quell’ordinamento produce.

Ho volutamente estremizzato i comuni interrogativi che tutti i giorni ci accade di considerare. Nella realtà esistono spesso i modi per risolvere compiutamente e spesso positivamente queste apparenti antinomie. Rimane comunque il problema centrale: lo stesso che la Rerum Novarum cercò di risolvere cento anni fa. Riconoscere il nuovo volto della giustizia nella società in cui viviamo.

Questo è il percorso nel quale sentiamo di doverci tutti impegnare.
E allora occorre il coraggio per ridiscutere presunzioni e congetture, per liberarci della nostra superbia e della nostra vanità, per ritrovare la dimensione della umiltà come una nuova dimensione eroica della politica.

Dobbiamo ricercare il principio di giustizia come un Criterio che regola la distribuzione fra i membri della società dei diritti e dei doveri e, insieme, dei vantaggi e degli svantaggi che nascono dal rapporto di collaborazione sociale.
Ma se poi ci impegniamo in questa dimensione della politica, non possiamo sottovalutare le difficoltà e i rischi. Non tanto nella oggettività dei problemi, quanto in noi stessi.
Il rischio della stanchezza per i nostri insuccessi e per le nostre incoerenze, lo sconforto per la incomprensione che spesso circonda la nostra attività, il rischio di fare della politica un mestiere, la tentazione di scegliere la fuga nel privato e di immaginare il nostro itinerario di cristiani ristretto e soddisfatto in un ambito familiare e professionale.

Anche il politico sente talvolta una grande solitudine.
Un politico cristiano vive forse ancora più intensamente i momenti di turbamento e di dubbio. Ma, in più degli altri, noi abbiamo una riserva di ispirazione, un supplemento di motivazione.
Per concludere: ci possono soccorrere un vecchio testo ed una vecchia regola.

Dal vecchio testo vi propongo una frase del grande filosofo Capograssi nella quale l’utopia si fonde con il realismo.
“La giustizia nella nuova città non è e non può essere che carità. Sparite le differenze della vita pratica, eguagliate le scabrosità, eliminato il mio e il tuo, la perfetta carità secondo la grande parola di Agostino diventa perfetta giustizia”.
E infine una vecchia regola: “Dare un fine alle nostre azioni politiche”. E il fine deve essere il bene comune, quello in cui ciascuno, persona o gruppo, trova il massimo bene proprio compatibile con il bene delle altre persone e degli altri gruppi.
Ma anche il bene comune che “si concreta nell’insieme di quelle condizioni della vita sociale, con le quali gli uomini, le famiglie, le associazioni, i popoli possono ottenere il conseguimento più pieno e spedito della propria perfezione”.
Un’azione per il bene comune esige che si sia capaci di offrire una testimonianza di impegno eticamente irreprensibile.

Due anni fa, a Cagliari, il Cardinal Martini ci ha ricordato le Regole etiche della politica: – Competenza, Primato della vita spirituale, Speranza Cristiana anche in politica.
Io non so quando e se saremo in grado di onorare pienamente queste regole: ma in fondo in questa aspirazione si racchiude la nostra scommessa.

Il percorso della politica coincide per un cristiano in un compito difficile: occorre essere esigenti con noi stessi; e insieme avere comprensione per le insufficienze degli altri.
La virtù dell’umiltà deve essere richiamata tutti i giorni.

Questa è la frontiera sulla quale misuriamo la nostra coerenza, il luogo dove la fede cristiana e l’impegno politico ritrovano sintesi.

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