Quale statuto per la Sardegna?

Il Solco, intervista a cura di Gianfranco Pintore, febbraio 1991

 

Questi 43 anni di Autonomia un risultato importante l’hanno ottenuto: la cultura autonomista è talmente sedimentata che, probabilmente, non c’è oggi alcun sardo che si proclami antiautonomista. Non vi pare che questo sia un terreno ideale sia per approfondire l’Autonomia sia per progettare scenari istituzionali diversi per la specialità della Sardegna?
In questi anni si è ottenuto il risultato di creare una comune consapevolezza, una coscienza popolare dell’Autonomia. Essa fa parte del vissuto di diverse generazioni di sardi. Ma, probabilmente da molto tempo, si pone una questione di aggiornamento dell‘Istituto autonomista, che vive problemi non immaginabili dalla cultura politica nell’epoca della Costituente.
Problemi legati ai vecchi bisogni, quelli tradizionali, intorno ai quali si è dispiegata troppo a lungo la cultura di un autonomismo economicista che ha avuto come risultato un appannamento dei temi connessi all’identità. E problemi legati ai nuovi bisogni, quelli non strutturati: l’aspirazione a una nuova qualità della vita, il bisogno di portare a sintesi e riassumere la complessità sociale e la differenziazione dei modelli, dei comportamenti culturali che caratterizzano la nostra modernità. E tutti questi bisogni vengono riferiti, in termini di aspettativa, di risposta positiva, a un Istituto – Regione che appare sempre più insufficiente.

Paradossalmente la risposta è apparsa più esaustiva delle aspettative sociali negli anni in cui più debole era la politica del governo regionale, perché più scarse erano le risorse, più scarsi i poteri attuati, rispetto alla situazione attuale nella quale più risorse, più poteri e maggiori iniziative di governo mostrano la loro insufficienza nei confronti della crescita dei bisogni vecchi e nuovi, di quelli struttura- ti e di quelli non strutturati. Su un dato mi sembra dunque siamo tutti d’accordo: sulla necessità di un processo di modifica e ampliamento dei poteri autonomistici e, quindi, dello Statuto. Di qui l’altra questione: fra gli statuti possibili, qua! è quello di ciascuno di voi?
Se noi continuiamo a vedere l’Autonomia con un approccio economicista, probabilmente rischiamo di compiere una impresa destinata al fallimento, o comunque a lasciarci profondamente insoddisfatti. Se noi coltiviamo l’ambizione di collegare l’Autonomia all’esistenza di una identità, specifica del popolo sardo, che lo rende distinto dalla comune identità nazionale, allora forse è possibile fare un intervento che sia più positivo.
Concordo, e lo abbiamo scritto nei nostri documenti, sul fatto che ci debba essere un ribaltamento dello schema tradizionale che attribuisce all’Istituto autonomistico un ambito solo residuale alle potestà dello Stato.

Tuttavia questa esigenza e questo indirizzo devono essere preceduti da un momento di grande contrattazione regionalista. Quali possono essere le alleanze? Quelle con le regioni a Statuto Speciale o quelle, in generale, col sistema regionale? E questo è un problema che non abbiamo sostanzialmente risolto visto che ci siamo mossi di volta in volta in modo disordinato, qualche volta ricercando ancora una terza dimensione di alleanze che è quella delle regioni meridionali.
Io credo che dobbiamo ricercare l’alleanza delle regioni a Statuto Speciale che conservano tutte una specificità, che non è soltanto di tipo economico-sociale, rispetto al sistema regionale.
Quando dico che sono necessarie alleanze per modificare la regola che disciplina l’ordinamento dei rapporti fra le regioni e lo Stato e per prevedere la modifica dell’ articolo 116 della Costituzione, intendo dire con non è cosa che possiamo fare con un atto di nostra autonoma disposizione. La mia opzione per una alleanza stretta con le regioni a Statuto Speciale non nasce in contrapposizione ad un rapporto con il regionalismo ordinario, ma parte dalla presunzione che il regionalismo ordinario ha già attivato il “convoglio”.
Il rischio che noi corriamo è che si disperdano, dentro la nuova articolazione regionale, le ragioni della nostra identità, della nostra specialità.
E credo che la specialità dell’ordinamento sardo nasca non dal riconoscere alla Sardegna una condizione di economia svantaggiata, ma nasca dal riconoscimento di un soggetto, il popoio sardo, che ha una sua identità diversa da quella che comunemente è considerata l’identità del p0polo italiano.
La Commissione speciale per lo Statuto ha riconosciuto l’esistenza della nazionalità sarda e la preesistenza di questa alla sua forma istituzionale odierna. Cito alla lettera un documento:
“La soggettività istituzionale della Sardegna si fonda su una storia, una cultura, una lingua ed un ambiente peculiari” – Questo riconoscimento non è senza conseguenze; vorrei invitarvi a trarne qualcosa ai fini, naturalmente, dello Statuto.
L’indirizzo che noi dobbiamo avere è quello di dare alla nostra Autonomia due versanti, o due tendenze: una che è di cambiamento nel senso di utilizzare i poteri regionali in concorso con i poteri dello Stato per rimuovere le ragioni di svantaggio connesse alla nostra storia di insularità e di periferia. Ma insieme a questo obiettivo di cambiamento, c’è un obiettivo di conservazione attraverso i poteri che l’autonomia fa propri della memoria del passato, della storia, della cultura, delle sensibilità, dell’identità di popolo che rischiano di essere culturalmente omologate, se non travolte da un processo ormai diffuso di acculturazione ai nuovi modelli della società opulenta. Questi credo siano presupposti su cui costruire gli obiettivi e i contenuti di un processo di nuova costituente delle autonomie speciali.

Un altro problema che la Commissione Speciale ha affrontato è quello della soggettività internazionale della Sardegna e alla questione si è data una risposta positiva. Nei senso, cioè, che tale soggettività esiste. Se anche secondo voi esiste, in che direzione va esercitata?
Si, pare giusta anche a me questa impostazione. Credo che potremmo considerare due possibili dimensioni delle relazioni che il soggetto regionale speciale sardo può avere al di fuori dell’ordinario rapporto di relazione interna statuale. Una è quello che passa attraverso il rapporto con le regioni d’Europa, e credo che l’esperimento in atto con la Corsica rappresenti un modello nuovo. L’altra è una dimensione di relazione mediterranea, più estesa sulla quale credo che dovremo fare ancora una qualche riflessione.
Concordo con Pubusa che le relazioni internazionali rappresentano ordinariamente una dimensione che rimane in capo allo Stato fondato sulle regioni. Però non si esclude che la regione sarda possa aprire una serie di relazioni nel Mediterraneo che non siano relazioni solo mercantili.
Penso che la cultura nordafricana, per fare un esempio, non possa essere considerata un terminale di riferimento che passi, necessariamente, attraverso la Farnesina. Credo proprio di no! Tradizionalmente, e anche oggi se ne è fatto cenno, le nuovi modelli della società opulenta. Questi credo siano presupposti su cui costruire gli obiettivi e i contenuti di un processo di nuova costituente delle autonomie speciali.

Un altro problema che la Commissione Speciale ha affrontato è quello della soggettività internazionale della Sardegna e alla questione si è data una risposta positiva. Nel senso, cioè, che tale soggettività esiste. Se anche secondo voi esiste, in che direzione va esercitata?
Si, pare giusta anche a me questa impostazione. Credo che potremmo considerare due possibili dimensioni delle relazioni che il soggetto regionale speciale sardo può avere al di fuori dell’ordinario rapporto di relazione interna statuale. Una è quello che passa attraverso il rapporto con le regioni d’Europa, e credo che l’esperimento in atto con la Corsica rappresenti un modello nuovo. L’altra è una dimensione di relazione mediterranea, più estesa sulla quale credo che dovremo fare ancora una qualche riflessione.
Concordo con Pubusa che le relazioni internazionali rappresentano ordinariamente una dimensione che rimane in capo allo Stato fondato sulle regioni. Però non si esclude che la regione sarda possa aprire una serie di relazioni nel Mediterraneo che non siano relazioni solo mercantili.
Penso che la cultura nordafricana, per fare un esempio, non possa essere considerata un terminale di riferimento che passi, necessariamente, attraverso la Farnesina. Credo proprio di no!
Tradizionalmente, e anche oggi se ne è fatto cenno, le competenze di tipo federale, sottratte cioè alle potestà delle singole entità federate, sono quelle del battere moneta, dell’organizzare la difesa, dell’amministrare giustizia e del tenere rapporti diplomatici. E questo è, più o meno, ciò che si ricava anche dalle elaborazioni dei nostri quattro partiti.

Recentemente queste certezze sono state messe in discussione dall’Armenia che ha affermato di voler restare federata alla altre repubbliche, di mettere per così dire in comune alcune potestà e di voler esercitare invece potestà in materia di moneta, esercito e rapporti diplomatici. Non vorrei farla troppo lunga, ma non vi pare che in questa nostra riproposizione dello schema classico vi sia una sorta di pigrizia mentale, di assuefazione al conosciuto? E non pensate che sia prevedibile per la Sardegna una autonomia, che so, in materia di giustizia e una delega in materia, faccio per dire, di ambiente, una competenza che oggi è nostra?
Bisogna creare condizioni politiche generali perché le proposte di riassetto istituzionale tra lo Stato e le regioni a Statuto Speciale non rimangano semplici quanto velleitari auspici. La sede del confronto è per me quella contrattazione regionalista di cui ho già parlato. In quel contesto non sarà solo necessario ridefinire il sistema delle potestà primarie e di quelle delegabili ma soprattutto si dovrà garantire un ruolo non secondario ai governi regionali rispetto alla definizione delle scelte politiche di carattere generale che oggi, alla luce della globalizzazione dei mercati e delle relazioni politiche, potrebbero essere limitative di qualsivoglia sovranità. Il problema non sarà dunque soltanto la determinazione di quanto i sardi potranno fare in Sardegna, ma anche di quanto la Sardegna conterà in Italia. Quindi il rapporto tra potestà primarie e delegate o delegabili è da rapportare a due fini: quello dell’autogoverno possibile e quello della reale integrazione nazionale ed europea, la quale non può realizzarsi solo attraverso la determinazione degli ambiti reciproci. A mio parere il nuovo rapporto Stato – Regione deve poter favorire una ripresa della politica meridionalista e l’integrazione culturale ed economica tra aree forti e deboli. Il tema non è dunque soltanto se delegare la Difesa o la Giustizia, ma anche del grado effettivo di partecipazione alla determinazione della politica nazionale garantito alle Regioni dal nuovo assetto istituzionale.

Credo tutti concordiamo sul fatto che l’autonomia non può non avere due frontiere: una verso l’esterno, lo Stato, la Comunità Europea, e una verso l’interno, le comunità, gli enti locali. Sarebbe senz’altro singolare che noi ci battessimo per conquistare alla Sardegna una più forte autonomia (più spinta come è stato detto) che poi trasformiamo in un nuovo centralismo. Ecco, all’interno dello statuto, come risolvere il problema dei rapporti tra Regione e Comuni?
La consapevolezza di dover ridefinire i rapporti tra Regioni ed Enti Locali è ormai comune a tutti i partiti. Come credo che sia altrettanto diffusa la volontà di ridimensionare in modo considerevole l’attuale ipertrofia gestionale della Regione a vantaggio della funzione di governo propriamente detta. Se la Regione si trasformerà in ente di alta programmazione ed amministrazione, è chiaro che simultaneamente si apriranno gli spazi per un nuovo rapporto con gli enti locali. La 142 indica esplicitamente la Provincia come ente intermedio. A mio parere il sistema provinciale dovrebbe divenire la rete stabile dei soggetti di programmazione sub-regionale. E’ però essenziale che nel trasferimento di risorse e di funzioni dalla Regione alle Province e ai Comuni, questi non vengano intesi solo come terminali gestori di bilanci predeterminati nelle voci e nelle priorità. Sarebbe forse auspicabile esaltare, con quote di bilancio non finalizzate, il momento politico della programmazione periferica, in modo da permettere che le istituzioni siano riconosciute come oggettivamente capaci di rispondere efficacemente al sorgere e al modificarsi dei problemi della società.

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