I riflettori sul malessere

Nuoro, 25/05/1990

 

Signor Presidente, io credo che questa comunità abbia avvertito con disagio la ripresa del confronto su questi temi. Se ne è reso interprete un giornalista de “La Nuova Sardegna” questa mattina scrivendo che non basta capire, sottolineando una divaricazione forte, che noi avvertiamo tutti, tra l’analisi che viene fatta, la riflessione, gli studi e gli atti di governo che possono in qualche misura rimuovere, modificare l’oggetto di questa analisi.

E quindi la ciclicità dei riflettori puntati sul malessere delle zone interne diventa quasi una provocazione perché il fenomeno criminale non è un dato sovrastrutturale, un elemento di giudizio separabile dal complesso della questione delle zone interne, ma è invece un punto di relazione circolare che lega la criminalità alla più generale condizione del malessere di queste zone.
Dobbiamo dire che la sensibilità alla questione delle zone interne anziché crescere in questi anni è andata degradando.
Qualche spunto si è colto anche questa mattina. Esiste un tentativo di rinnovare una sorta di dualismo di interessi, una contrapposizione tra zone interne e altre aree della Sardegna.
Presentazione delle conclusioni della Commissione Speciale di indagine del Consiglio regionale
Io voglio ribadire che i problemi delle zone interne pesano, producendo squilibri e trasferendo tensioni, sull’intera comunità regionale. Ma noi sappiano che non cj sarà soluzione al problema delle zone interne se non saranno risolte le ragioni di crisi dell’intera Isola.

In questo senso credo che ieri la partecipazione dei lavoratori di Ottana allo sciopero di Porto Torres esprimesse compiutamente il senso di una partecipazione delle zone interne al destino della Sardegna nella sua totalità.
Ma nessuno può pensare di risolvere la questione sarda lasciando indietro come una memoria del passato, la questione delle zone interne.
Va respinta la presunzione di isolare, di circoscrivere, di confinare. Questo sentimento è lo stesso che poi ha prodotto la cultura delle leghe: ed esiste una cultura leghista am che in Sardegna. Non è del tutto casuale, non è solo un fatto tecnico, se è trascorso un anno tra la conclusione dei lavori di questa commissione e l’attivazione di un qualunque atto di governo politico, di informazione esterna che sia conseguente ai lavori della Commissione. Da questa punto di vista voglio dire a Piero Mannironi, che scriveva su “La Nuova Sardegna” che forse i riflettori non servono, che i riflettori servono, anzi dobbiamo tenerli sempre accesi perché il grado di sensibilità a questi problemi va calando e rischia di estinguersi.

Noi attraverso i lavori della Commissione abbiamo vissuto una esperienza singolare rispetto alla più generale esperienza che molti di noi hanno fatto nell’Istituto dell’Autonomia regionale, perché abbiamo vissuto un rapporto profondo, più solido e motivato, più carico di reciprocità e di consenso della nostra Autonomia con la comunità che rappresentiamo.
Abbiamo avuto il privilegio di cogliere i bisogni nella loro immediatezza, al di fuori di un rapporto rituale o di scontata protesta o di lamentazione corporativa. Abbiamo colto in una riflessione corale, sofferta, incerta quanto partecipata, i caratteri di una condizione di malessere insopportabile. Abbiamo cercato di segnalare quel tessuto di malessere, di insicurezza, di convinzioni introitato dalla coscienza popolare e pure avvertito come rischioso, di conflitti percepiti come ineluttabili eppure diversi dall’aspirazione non più repressa ad una condizione di vita migliore. La nostra è stata un’inchiesta sulla qualità della vita di una parte della comunità sarda. Una dimensione antica, questa della qualità della vita: antica nella sua essenza, forse in passato considerata marginale rispetto alla rappresentanza dei bisogni materiali, ma nuova nella percezione politica, segnalatore acuto dei bisogni della nostra società e insieme delle contraddizioni spesso irriducibili della modernità.

La qualità della vita misura oggi il grado di felicità nella società nella quale viviamo. E allora la questione delle zone interne è oggi prima di tutto, un problema di qualità del la vita.
Noi lo abbiamo colto al di là degli studi: credo che delle forse cento audizioni, quella che più di tutti ci ha fatto cogliere nella sua immediatezza il senso di quello che io voglio dire è stata l’audizione di Oniferi, quella più silenziosa, quella nella quale nessuno parlava. Hanno fatto uscire dalla sala di riunione anche gli stenografi: per non dirci nulla. Ma quel silenzio esprimeva per intero la paura, quel senso di degrado della qualità della vita che è il termometro della esperienza e del malessere delle zone interne della Sardegna. E si può comprendere quale possa essere la qualità di vita in un’area nella quale si sommano condizioni di svantaggio economico, di arretratezza del sistema produttivo, di isolamento geografico, di spopolamento delle campagne, di degrado dei centri abitati, di esplosione ciclica dei fenomeni criminali. Fenomeni ciclici e perciò spesso non scindibili da un rapporto strutturale con le condizioni di vita delle popolazioni interessate. Un’area nella quale il nesso fra criminalità e sottosviluppo, come si diceva, è un flesso circolare di causa ed effetto, perché la violenza è un freno allo sviluppo. Ma per converso è difficile non ritrovare nel divenire storico di questa zona della Sardegna le interconnessioni tra il sistema di produzione e il formarsi di un sistema di convenzioni, di tradizioni, di regole, di stereotipi cornportamentali: una sorta di codice che affida ai rapporti di forza le relazioni sociali, quelle economiche e spesso anche quelle politiche.

Per questo la questione “zone interne” non è riducibile all’analisi dei dati econometrici. Si sorprende qualcuno che in altre aree della Sardegna esistano condizioni di povertà forse anche più intense di quelle di alcune comunità delle zone interne, ma nella quale esiste un tessuto sociale sostanzialmente pacifico. Ma in Barbagia, in Goceano, in Ogliastra, nell’alto Oristanese esiste un vissuto più drammatico della condizione del malessere che viene tradotto in un atteggiamento conflittuale esasperato. Questo vissuto ha radici nella storia e abbiamo il dovere – io credo – di affrontare questo problema cercando le radici, cercando di vedere il senso dinamico della questione, di comprendere il divenire di una società che ha la sua cultura, i suoi valori ma anche la sua storia: il divenire dei suoi rapporti di dipendenza, di diffidenza, di diversità col resto della comunità sarda e nazionale.

Abbiamo il dovere di cogliere l’evoluzione nel tempo di questi rapporti, i termini storici del divario anche economico, i riflessi che l’impianto produttivo monoculturale, la pastorizia, ha avuto per secoli nella stratificazione di gerarchie culturali, di modelli reattivi e comportamentali, ma insieme cogliere il nesso e il conflitto tra questa cultura tradizionale, il vecchio codice e la regola dello Stato di diritto, la regola, le leggi i modelli di uno Stato nazionale fondato sul diritto.
L’evoluzione di questo rapporto che non è mai stato un rapporto rigido e chiuso, ma certo improntato ad una sostanziale indifferenza, con la dominanza di un codice tutto giocato sulla regola della forza, che è il vero caposaldo della cultura tradizionale. L’evoluzione di questo rapporto non è approdata a una condizione definitiva di ordinamento materiale che coincida con l’ordinamento formale.

Esiste ancora, in un ruolo di primato oscillante, la regola della forza come valore introitato in una larga parte della coscienza popolare, così come largamente diffuso è un sentimento di insoddisfazione, di sfiducia verso lo Stato, di risentimento ancestrale e di rassegnazione ad un destino di sconfitta e di emarginazione.
Questa condizione produce un risultato che oscilla tra l’inerzia e la protesta rabbiosa e irrazionale. Ancora dobbiamo riflettere, sull’intreccio con i nuovi impulsi, i nuovi miti, i nuovi modelli, le trasformazioni profonde che si stanno verificando in questa società. Si pensi solo agli effetti della scolarizzazione diffusa e ancor più alla comparsa in termini nuovi e dirompenti del lavoro femminile e la incerta evoluzione critica della famiglia.
Queste condizioni di cambiamento hanno di fatto reso più complessa la società barbaricina, meno compatta e quindi forse più penetrabile a modelli di criminalità esterna.

Ritengo che il discorso sulla presenza di una criniinalitl organizzata debba tutt’al più limitarsi alla considerazione che si consumano forse già segmenti terminali di una criminalità organizzata esterna.
Credo che non esista il fenomeno mafioso, l’organizzazione in sistema, perché ne manca il presupposto economico, ma la presenza anche in termini di consumo di segmenti della criminalità organizzata rende questa condizione esplosiva, viste le premesse dalle quali siamo partiti.
Io non mi dilungo sui vari temi che sono stati oggetto della Commissione, d’altra parte abbiamo consegnato alla nostra relazione valutazioni compiute e proposizioni organiche. Voglio dire solo che dalla relazione emerge una strada obbligata per noi che abbiamo il compito di tradurre l’analisi in politiche: è quello di rendere più persuasiva l’istituzione, trasmettendo un’immagine più affidabile della stessa.

Bisogna cioè guadagnare la fiducia dei cittadini allo Stato e alla Regione. Abbiamo indicato un itinerario di riforma in questa relazione conclusiva che è poi intimamente intrecciata ampiamente con gli obiettivi di programmazione che la regione in questi anni si è data. Siamo consapevoli che il percorso sarà complesso.
Noi abbiamo fatto questo lavoro senza la presunzione che sia facile tradurre meccanicamente la politica che noi in qualche modo attiveremo in una nuova cultura di pace, di rispetto e di amore.
Per questo io credo che dobbiamo ancora, alla fine, richiamare le nostre, quelle di tutti, responsabilità individuali.

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