Difendiamoci in Rete

A 20 anni dalla legge sulla privacy, la diagnosi del garante Antonello Soro è senza sconti: società, media e politica sono in ritardo sulla grande questione della protezione dei dati personali. L’era digitale richiede investimenti, cultura e regole pubbliche altrimenti ci consegniamo mani e piedi al web e all’algoritmo
Intervista ad Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
(di Giampaolo Roidi, Prima, 1 febbraio 2017)

“I dati personali sono il petrolio del futuro, anzi, del presente. E oggi esistono cinque, sei grandi gestori di questi dati, usati quotidianamente per condizio•nare le scelte dei mercati e della politica almeno in quattro continenti su cinque. Dati che vengono ogni istante aggiornati, diffusi e condivisi da miliardi di uomini e donne per lo più ancora convinti che quell’attività di diffusione sia privata, limitata alla cerchia di amici e conoscenti di una chat su WhatsApp o di un gruppo Facebook. Dati che vengono registrati, classificati e archiviati, finendo talvolta nelle trappole degli attacchi informatici, magari della criminalità organizzata che ricatta i governi, le grandi aziende, l’economia in tutte le sue espressioni. O compie atti di terrorismo, seminando morte e distruzione. Possibile che la portata storica ed economica di questa era digitale non sia stata ancora compresa fino in fondo, dai singoli e dalle istituzioni? Come si può non vedere e non riconoscere l’arretratezza culturale e politica di una società che si è consegnata mani e piedi alla Rete senza conoscerla fino in fondo, senza riuscire a comprendere l’importanza della ditesa della propria vita, non dalla Rete, ma sulla Rete?”.

Antonello Soro è un fiume in piena. Non lo dice tra virgolette, ma lo spirito delle affermazioni rilasciate a Prima per i vent’anni della legge sulla privacy, si potrebbe sintetizzare così: oggi l’Autorità, Garante per la protezione dei dati personali (che lui presiede da giugno 2012, dopo un passato da parlamentare, capogruppo Pd alla Camera e sindaco) dovrebbe avere la dignità e il portafoglio di un ministero di prima fascia, non un organico di 120 persone, non lo standing di una fondazione studi. Questa della protezione dei dati personali è la madre di tutte le riforme culturali, bisognerebbe dotare questi uffici di mezzi, uomini e mandato politico per supportare in maniera più efficace le principali istituzioni democratiche nella difesa dei valori fondanti della nostra società. Il Presidente Soro, 68 anni, sardo di Orgosolo. una laurea in medicina, in questi giorni di fine gennaio è alle prese con mille beghe. Il datagate dei fratelli Occhionero che spiavano pure Matteo Renzi è il caso del giorno. Poi c’è l’Abi che invoca la privacy per i debitori insolventi, e una società che vorrebbe creare una mega banca dati sulla reputazione digitale delle persone. Poi un’associazione che chiede un intervento su Facebook affinchè rimuova dalle bacheche le immagini e i video di minori nel rispetto della Carta di Treviso. Decine di richieste di oblio sulla Rete, il tormentone ‘bufale’. Fino ai quotidiani casi di cronaca nera. Quella che schiaffa in prima pagina o in seconda serata storie di ragazzi vittime di cyberbullismo che le famiglie per prime spesso non si preoccupano di tutelare.

Prima – Presidente Soro, partiamo dai media tradizionali, giornali, radio e televisione. Qual è il suo bilancio dopo 20 anni di normativa a tutela della privacy? Abbiamo a che fare con media affidabili?

Antonello Soro – Io dico che la cultura della privacy non è cresciuta abbastanza. Siamo sempre pronti a difenderla quando è la nostra, per poi scoprirci molto indulgenti su quella degli altri. In questi 20 anni la cultura del rispetto della dignità delle persone non è migliorata di molto. Nella società, come sui media. Certo, esistono i codici deontologici, le Carte in difesa dei soggetti più deboli. In teoria i passi in avanti, sono stati notevoli. Ma nella quotidianità ci troviamo troppo spesso di fronte ad abusi e a una certa ritrosia a riconoscere gli errori, a intervenire rapidamente per ristabilire un diritto violato.

Prima – Siamo ancora al mostro sbattuto in prima pagina per vendere qualche copia in più?

A. Soro – Diciamo che esiste ancora una tendenziale sottovalutazione dell’importanza della riservatezza. Ha influito molto il dilagare della tecnologia, dei social. Se tutti condividono e mettono in piazza la loro vita, allora la riservatezza sembra contare meno, questo è il pensiero dominante di cui i media sono interpreti e specchio fedele. Fino al grande abuso, alla grande violazione che ripropone il tema, l’urgenza, la presa di coscienza.

Prima – La crisi della stampa ha inciso su questa mancata affermazione di un’informazione rispettosa della persona?

A. Soro – Ha inciso in negativo, non c’è dubbio. Prevale sui nostri mezzi d’informazione la tendenza a privilegiare la notizia che fa vendere copie, che suscita la curiosità dei lettori, ma la curiosità è spesso anticamera della morbosità. E incoraggiando questo approccio si produce – non sempre, intendiamoci – un’informazione spettacolarizzata, un continuo processo mediatico. I talk show diventano tribunali in tempo reale e già in prima serata si emettono sentenze su casi del pomeriggio o della mattina stessa. Dal canto loro i giornali, per stare dietro alla televisione, pubblicano intere trascrizioni di intercettazioni, senza rispettare il principio di essenzialità, come pure legge e deontologia imporrebbero loro di fare. Ci troviarno a leggere tutti i giorni dettagli sulla vita delle persone che nulla aggiungono alla comprensione corretta dei fatti, dettagli che spesso devastano le esistenze di personaggi non protagonisti delle storie. In questo senso le cose non vanno assolutamente meglio del 1998, quando fu varato il codice deontologico dei giornalisti sulla privacy.

Prima – Forse basterebbe aggiornare le regole professionali, il codice, appunto.

A. Soro – Ci abbiamo provato, anche ultimamente. Ma l’Ordine dei giornalisti alla fine si è tirato indietro. Io credo che i giornalisti svolgano una funzione culturale decisiva in una società democratica come la nostra. E dovrebbero essere i primi a sollecitare se stessi, i propri organi di categoria, a tenere aggiornato quel sistema di regole che supporta il lavoro di migliaia di cronisti ogni giorno. Mi auguro che ci si ritrovi presto a parlarne e a trovare soluzioni e ammodernamenti condivisi. Dopo 18 anni un codice deontologico può e deve essere migliorato.

Prima – Condividiamo solo in parte il suo giudizio. Molti giornalisti lavorano con la Carta di Treviso o quella di Roma sui rifugiati sul tavolo, mi creda.

A. Soro – Ma non c’è dubbio, lo so. Molti giornalisti soffrono nel vedere il voyeurismo prevalere sull’informazione nei loro giornali o nei loro programmi televisivi. Ne concosco tanti anch’io. Ma è un fatto che i processi mediatici si fondino sulla presunzione di colpevolezza anziché d’innocenza, con effetti inevitabilmente distorsivi sulla cultura e la qualità dell’informazione. Persino sui valori della Carta di Treviso, che tutela i minori, ho assistito in questi giorni a un caso di violazione enorme: nome di fantasia del figlio minore, con nome e cognome (e foto) della mamma, con tanti saluti al principio di anonimato del ragazzo.

Prima – Anche i codici della giustizia arrancano dietro a un universo, quello del progresso tecnologico, che muta sembianze ogni giorno.

A. Soro – E’ così. Le rivoluzioni del passato hanno avuto il tempo di maturare e far sedimentare i cambiamenti. Qui la velocità è tale che il diritto stenta a starci dietro. Parlo del diritto in senso assoluto, come della macchina operativa che quel diritto deve far valere ogni giorno, ovvero la giustizia. In questo periodo siamo subissati di richieste di rimozione di contenuti lesivi della dignità da parte di singoli nei confronti di siti web. Ma secondo le norme un provider deve lirimuovere un contenuto, un post, una foto o un video, in presenza di una segnalazione qualificata, in particolare dell’autorità giudiziaria. La magistratura ha i suoi tempi, oggi assolutamente inadeguati a stare dietro a questo tipo di dinamiche. Una foto che resta online anche solo per poche ore può essere condivisa e distribuita migliaia di volte. Quando arriva il magistrato a rimuovere, lo tsunami digitale è già esploso e spesso concluso.

Prima – Com’è il rapporto con Google e i grandi social network?

A. Soro – Anche la medaglia dei social ha due facce. Da una parte ci sono gli utenti che alimentano il traffico e anche il business dei gestori. E qui siamo davvero all’anno zero della consapevolezza. Gli utenti credono ancora che quando si condivide un video o una foto con un amico, un parente o un gruppo ristretto quel contenuto sia protetto e al sicuro. Quasi fosse una storia tra chi posta e chi riceve. La presunzione di anonimato è ancora troppo diffusa e infondata, col risultato che si arriva a un’esposizione di sé eccessiva e deleteria. Una persona che posta una sua foto sul proprio profilo Facebook o la condivide anche solo con due persone non può mai essere certa che uno solo di quei due amici un giorno non deciderà di metterla in piazza. La storia di Tiziana Cantone è emblematica e ha segnato le nostre coscienze in modo profondo.

Prima – L’altra faccia della medaglia sono i gestori, i grandi provider mondiali, giusto?

A. Soro – La sensibilità dei gestori nel prevedere meccanismi di oscuramento automatico di contenuti di odio razziale o di propaganda terroristica è aumentata. Ma non possiamo pensare che queste funzioni di controllo e intervento possano essere delegate a un algoritmo a soggetti privati che comunque perseguono interessi commerciali. Puntiamo molto sul nuovo regolamento europeo approvato ad aprile. Sarà efficace dal 2018, ma già oggi indica una linea da seguire. Diritto all’oblio e quello alla portabilità dei dati, la nuova figura del responsabile della protezione dei dati, l’obbligo di comunicare le violazioni di dati personali, i limiti alla profilazione delle persone. Su molti fronti le regole saranno stringenti, condivise e applicabili in tempo reale con il solo intervento del Garante.

Prima – Ci vorrebbe un garante-ministro con poteri di intervento paralleli a quelli del magistrato ordinario.

A. Soro – La nostra funzione di intermediazione sarà sempre più strategica. Dobbiamo investire sulla consapevolezza degli utenti, rafforzare il potere di intervento del cittadino nell’ottenere la rimozione di un contenuto lesivo in un rapporto con il gestore che oggi è squilibrato. Puntiamo sulla comprensione del mondo politico, le procedure vanno aggiornate continuamente, e sulle famiglie, sulla scuola. È quello il luogo dove far passare il messaggio culturale. La dimensione digitale non è un mondo virtuale, è la realtà. Non esiste l’impunità per un atto compiuto su un social. Troppo spesso i genitori sono complici dei figli nel non difendere questo principio. Dobbiamo essere i primi a voler difendere la nostra dignità, informandoci e imparando a conoscere gli effetti che i nostri comportamenti sulla Rete possono produrre.

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