Contro Google & co. in palio la libertà, è ora che si muova anche l’Europa

Soro: “Quei gruppi hanno un potere mai visto”. “I motori di ricerca e i social conoscono tutto di noi, i gusti, le scelte”

(di Aldo Fontanarosa, La Repubblica,  19 maggio 2015)

“Google, Facebook, Amazon hanno oggi un potere che nessuno mai nella storia dell’umanità. Sanno tutti di noi, delle nostre scelte, dei nostri gusti. Questa mole di dati permette a un ristretto gruppo di aziende di orientare sia i consumi sia la produzione dei beni. E domani, dopo averci detto quale cellulare comprare o quale libro leggere, potrebbero suggerirci magari anche per chi votare. Come Garante della Privacy, mi confronto spesso con questi colossi beninteso senza ostilità preconcette. Sono al comando però di una piccola navicella: questa è una autorità solo nazionale mentre loro sono colossi globali; ho risorse limitate ed opero in un Paese non del tutto consapevole di quanto grande sia la posta in palio, che è quella delle libertà democratiche”. Antonello Soro è la sentinella della riservatezza e della privacy. E si misura oggi con sfide tra le più ardue della sua vita, lui che è stato a lungo parlamentare.

Presidente. Gli editori investono tutte le loro risorse per creare contenuti. Ed hanno la speranza di raccogliere pubblicità. Alla fine, però, i maggiori vantaggi vanno ai motori di ricerca che ricavano e poi vendono il profilo analitico di noi navigatori. Questo scenario, beffardo, è ineluttabile o si può fare qualcosa?

“Noi abbiamo fatto molto, forse tutto il possibile, a garanzia dei cittadini digitali. Siamo la prima autorità nazionale ad aver imposto a Google delle norme stringenti sulla profilazione degli utenti. Lo abbiamo fatto già nel luglio 2014 stabilendo tutele concrete in favore di chi naviga”.

L’americana Google accetta la vostra azione?

“Una volta, Google negava questa nostra legittimazione a intervenire. Ci ascoltava, diceva, per pura cortesia e se attuava le nostre prescrizioni lo faceva solo per l’atteggiamento non certo malevolo che assumevamo”.

E che cosa sarebbe cambiato adesso?

“È cambiato molto dopo la sentenza della Corte di Giustizia Ue del 2014 sul diritto all’oblio. La sentenza Google-Spain, che sancisce il diritto a vedere cancellati alcuni dati sensibili dai motori, sia pure a certe condizioni, afferma la competenza delle autorità europee per la privacy anche su imprese con certificato di residenza fuori dall’Europa”.

In quale anno del Signore il vostro provvedimento sulla profilazione entrerà per davvero in vigore?

“Non sia così scettico. Una nostra delegazione è appena tornata da Mountain View, sede californiana di Google, e siamo certi che le nostre regole saranno operative entro fine anno, a 18 mesi dal varo del provvedimento. Come previsto”.

Se le vostre regole tutelano il cittadino, non toccano però la capacità smisurata dei motori di immagazzinare dati.

“Noi abbiamo fatto un pezzo di cammino. Un altro pezzo è nelle mani dell’Europa. Va nella giusta direzione la Risoluzione del Parlamento europeo del novembre 2014 che chiede a Google, anche a Google, di tenere separate le attività del motore di ricerca dagli altri suoi servizi”.

In parole più semplici…

“Se un principio del genere diventasse cogente, Google non potrebbe più cumulare i dati che incamera attraverso il suo motore con quelli raccolti dalle tante società acquisite in questi anni. Il problema vero è che la Risoluzione è un atto simbolico, non obbligatorio”.

La solita Europa un po’ metafisica…

“È soprattutto lenta. Il nuovo regolamento Ue sulla protezione dei dati personali è stato presentato a gennaio 2012 ed è ancora fermo. Questa lentezza è grave anche perché – sul fronte della profilazione – le incognite sono due: una ben visibile, quella americana, l’altra dimenticata”.

Dimenticata?

“Che cosa sappiamo noi, le chiedo, delle società orientali che cominciano ad affacciarsi nel commercio elettronico? La loro forza è pari a quella delle aziende americane. Eppure sono fuori da qualsiasi radar o controllo”.

Sui cookies, sui “biscottini” che ci spiano e ci profilano, la legge italiana del 2012 si colloca dentro una direttiva europea del 2009. È lecito sperare in una revisione di una direttiva così favorevole alle società Usa e così datata, ormai?

“Un confronto è partito in un gruppo di lavoro europeo, nel quadro dell'”Articolo 29 Working party”. Ci siamo accorti, in quel contesto, che i colossi di Internet si sono spinti già oltre i cookies, ora siamo ai “fingerprint”. Noi navighiamo e loro sanno con quali software, con quale pc, con schermi di quali dimensioni. Più che rivedere la direttiva del 2009, bisogna correre veloci verso una normativa nuova che tenga il passo tumultuoso dei big della Rete. E poi servirebbe una Kyoto dei dati. Così come esiste un accordo planetario a protezione dell’ambiente, ne servirebbe uno nel nostro delicatissimo campo d’azione”.

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