Trasparenza e privacy. Le questioni aperte e l’opportunità di un intervento normativo

(Tavola rotonda, 18 novembre 2014)

L’ordinamento in materia di trasparenza in questi anni ha progressivamente segnato l’evoluzione della nostra idea di democrazia.
Il superamento della segretezza quale principale forma di esercizio del potere muta anche l’idea del rapporto tra singolo e autorità: da autoritativo, burocratico e insindacabile a paritetico, partecipato e “controllabile”.
La concezione dell’amministrazione, come servizio e non potere, sottende un’idea nuova del diritto di cittadinanza.
Dalla legge 241/1990 (primo passo verso l’affermazione della trasparenza, con l’istituto dell’accesso ai titolari di una posizione giuridica differenziata, passando per la total disclosure della legge Brunetta e l’accesso civico del 2013 la trasparenza diviene forma e regola organizzativa dell’agire amministrativo, offrendo al cittadino, in quanto tale, uno strumento di controllo diffuso sull’esercizio del potere.
La trasparenza ha un ruolo fondamentale nell’architettura della nostra democrazia, ma proprio per questo richiede una regia accorta, per favorire realmente la democrazia partecipativa, senza pregiudicare diritti e libertà di alcuno.
L’accessibilità totale infatti – sganciata dal momento procedimentale e da alcuna posizione giuridica qualificata – rischia di rendere difficile l’indispensabile bilanciamento tra diritti costituzionalmente garantiti.
Se priva di adeguati criteri discretivi, la divulgazione di un patrimonio informativo immenso e sempre crescente (quale quello delle pp.aa.) rischia di mettere in piazza spaccati di vita individuale la cui conoscenza è inutile ai fini del controllo sull’esercizio del potere ma, per
l’interessato, può essere estremamente dannosa.
Del resto, proprio perché strumento di “partecipazione, responsabilità e legittimità, la trasparenza deve essere preservata da effetti distorsivi e da quella “opacità per confusione” che rischia di caratterizzarla se degenera in un’indiscriminata bulimia di pubblicità. Si pensi alla pubblicazione: dei principali documenti del fascicolo di ogni procedimento amministrativo, con anche l’elenco dei beneficiari, di ogni canone di locazione o del Piano degli indicatori di bilancio, con ogni documento contabile.
E’ dunque concreto il rischio di occultare informazioni realmente significative con altre del tutto inutili, così ostacolando, anziché agevolare, il controllo diffuso sull’esercizio del potere e degenerando in strumento di sorveglianza di massa.
Per la trasparenza c’è bisogno di un approccio qualitativo e non meramente quantitativo: meno dati ma più qualificati.

Quello dell’opacità per confusione è un rischio in qualche modo implicito nell’approccio scelto dal legislatore italiano, che non ha optato per l’open access del Foia e della Ue ma per la divulgazione in rete di tutto ciò che altre norme obblighino a pubblicare, ferma restando la possibilità per le pp.aa. di pubblicare dati ulteriori (pubblicità facoltativa).
Questo sistema a “cascata” moltiplica e inflaziona a dismisura gli oneri di pubblicità, creando – con una singolare eterogenesi dei fini – incertezza in ordine allo specifico regime di pubblicità di ogni singolo atto, in contrasto con le invocate esigenze di semplificazione e certezza normativa.
Un eccesso informativo (e normativo) aumenta il grado di opacità (per confusione e incomprensibilità) dell’ordinamento e, conseguentemente, di inosservanza e ineffettività delle norme stesse. Si ripropone, in questo, il vizio dell’iper regolamentazione che già dal 2005 aveva portato all’introduzione di più di cento norme su altrettanti obblighi di pubblicità, con il conseguente “duplice fallimento”, legato alla frammentarietà e all’elevato tasso di inosservanza della disciplina.
Proprio ciò che il d.lgs. 33 avrebbe dovuto superare, con il criterio del riordino degli obblighi di pubblicità, ma che invece sembra aver riproposto. Ora, non è in discussione l’affermazione della trasparenza come forma ineludibile dell’agire amministrativo, ma vanno probabilmente ripensatele le modalità di realizzazione.
E, in particolare, il carattere indifferenziato degli obblighi di pubblicità, che si applicano, con analogo contenuto, a realtà ed enti (nazionali e locali) profondamente diversi tra loro, senza distinguerne la portata in ragione:
• del grado di esposizione dell’organo al rischio di corruzione;
• dell’ambito di esercizio della relativa azione o, comunque,
• delle risorse pubbliche assegnate, della cui gestione l’ente debba quindi rispondere.
L’irragionevolezza di quest’assimilazione è ancor più evidente dopo la conversione del d.l. 90/2014, che ha notevolmente esteso gli obblighi di pubblicazione, in misura a volte eccessiva e con effetti in larga parte disfunzionali rispetto allo scopo.
Con tale provvedimento, tra le “pubbliche amministrazioni” tenute agli obblighi di pubblicità sono stati ricompresi, infatti, anche enti per i quali l’esigenza di “controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” non appare così forte.
O almeno non tanto da giustificare limitazioni alla riservatezza degli interessati così incisive quali, ad esempio, la pubblicazione dello stato patrimoniale dei componenti gli organi “di indirizzo politico”, dei loro coniugi e parenti sino al secondo grado (dai nonni ai genitori ai figli persino minori, fratelli, nipoti).

O, anche, la pubblicazione di incarichi, compensi, e ogni altra informazione relativa a ciascun dirigente o consulente presso enti la cui natura pubblica è solo formale o comunque non espressiva di una publica potestas (es. università non statali).
Ad esempio, è proprio necessario – ai fini di quel sindacato diffuso sull’azione amministrativa – pubblicare in rete, indicizzandolo, lo stato patrimoniale di tutti i componenti (e dei relativi congiunti) del senato accademico, ivi inclusi gli studenti e anche per le Università non statali? O dei componenti gli organi di indirizzo degli Enti per il diritto allo studio universitario o delle camere di commercio? Degli ordini professionali? Ed è davvero utile conoscere i compensi di ogni dirigente scolastico del Paese? E’ ragionevole assimilare, sotto il profilo degli oneri di pubblicità, il Presidente del Consiglio dei Ministri al consigliere del Comune di Noale (che ha da poco superato i 15.000 abitanti)?
La categoria degli enti soggetti agli obblighi di pubblicità andrebbe dunque complessivamente rivista, in funzione del loro grado di esposizione a fenomeni corruttivi, dell’ambito di esercizio del potere da ciascuno detenuto o, comunque, delle risorse pubbliche assegnate, della cui gestione l’ente debba quindi rispondere (ambito soggettivo di applicazione).
Come pure, andrebbe adeguatamente distinto, in ragione della rilevanza dell’ente, del suo grado di esposizione al rischio corruttivo, ecc., il contenuto degli obblighi di pubblicazione.
Si pensi ai componenti gli organi di indirizzo “politico” di enti o società partecipate, ai quali sono stati estesi, tra gli altri, gli oneri di pubblicità originariamente previsti per i soli parlamentari o comunque per i titolari di incarichi elettivi realmente espressivi di un potere
pubblico significativo.
Peraltro, gli oneri amministrativi conseguenti – che ogni Stato membro dell’UE è tenuto in linea generale a minimizzare – sono notevolmente accresciuti, in maniera non sempre ragionevole.
C’è dunque anche un problema – non è però quello principale – di sostenibilità della disciplina, segnalato da più parti ma ignorato, per difetto di realismo, dal legislatore, che ha imposto alle pp.aa. oneri crescenti con il vincolo d’invarianza finanziaria e amministrativa.
Nel Regno Unito, ad esempio, il FOIA del 2000 (pur basato sull’idea dell’accesso aperto e non dell’indiscriminata divulgazione in rete) è entrato in vigore dopo 4 anni, proprio per consentire alle pp.aa. di organizzarsi in vista degli oneri imposti.
Delle criticità di cui abbiamo detto sembra, del resto, consapevole anche il Governo, come dimostra la delega prevista nell’art. 6 del ddl sulla riorganizzazione delle pp.aa. per l’adozione di un correttivo volto ad adeguare il d.lgs. 33 – si legge nella Relazione – “alle esigenze emerse” nel solco della sua applicazione, “non essendo sempre agevole individuare l’intento del legislatore” “soprattutto nell’ambito delle società partecipate e controllate”.

L’esigenza di uno sforzo chiarificatore si deve anche alle conseguenze sanzionatorie che derivano, in capo al responsabile per la trasparenza, tanto da un’eventuale omissione degli obblighi di pubblicità, quanto da una loro interpretazione estensiva che coinvolga dati
personali.
Una revisione della disciplina vigente (anche oltre quanto previsto dai criteri direttivi di cui all’art. 6) dovrebbe dunque, auspicabilmente, non attendere i tempi della delega, ma affidarsi all’iter più celere della legge ordinaria (se non addirittura della decretazione d’urgenza).
Per rendere gli obblighi di trasparenza realmente funzionali a esigenze di controllo sull’esercizio dell’azione amministrativa, andrebbero anche (e SOPRATTUTTO) ripensate le modalità di assolvimento degli obblighi di pubblicità.
Non sempre, infatti, la pubblicazione in rete è garanzia di reale informazione, trasparenza e quindi “democraticità”, perché comporta rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare ogni esigenza di informazione veritiera e, quindi, di controllo.
La sfida reale è garantire dunque una trasparenza democratica e non demagogica, utile ai cittadini e non lesiva della loro persona.
Coniugando – come richiesto dalla Corte di giustizia con la sentenza Schecke del 2010 – valori entrambi essenziali per lo Stato di diritto, conformemente alla loro gerarchia costituzionale: diritto alla buona amministrazione e diritto alla protezione dei dati personali (che vuol dire libertà e vuol dire dignità).
Nel realizzare questo bilanciamento va ricordato che la divulgazione in rete non è, minimamente comparabile alla ostensione del singolo documento: perché lascia tracce la cui espansione non è possibile limitare con l’indicizzazione (peraltro resa obbligatoria dal d.lgs. 33) che consente di rintracciare, anche dopo anni e a partire da una sola parola, notizie spesso obsolete e decontestualizzate, rendendo quasi impossibile quel diritto all’oblio che fa ormai parte della cittadinanza europea.
Questi rischi sono poi accentuati da una durata della pubblicazione spesso sproporzionata e indipendente dalla reale utilità.
Molti degli obblighi in questione dovrebbero quindi essere trasformati in obblighi di ostensione, da parte dell’amministrazione, a chiunque ne faccia richiesta (e non solo a chi vanti un interesse qualificato), così ampliando l’accessibilità ben oltre i limiti della 241.
Un ragionevole bilanciamento, dunque, tra esigenze di ampia conoscibilità dei dati; loro “qualità” (ovvero esattezza e veridicità, ex art. 6 d.lgs. 33) e, infine, riservatezza degli interessati.
Del resto, è questo il sistema del Freedom of Information Act: FOIA, spesso indicato come modello ispiratore della nostra disciplina, ove la pubblicità degli atti si realizza nella forma non della divulgazione preventiva, sistematica e indiscriminata in rete ma dell’ostensione su istanza di parte, ove non vi ostino prevalenti esigenze, tra l’altro, di riservatezza.
Ed era questo il sistema di accesso generalizzato prefigurato dalla Commissione Nigro, che si è poi scelto di restringere con il criterio dell’interesse qualificato per timore di onerare eccessivamente le pp.aa.
E’ questo, inoltre – e non quello della divulgazione indiscriminata on-line – il modello adottato dalla Ue, che sin dal regolamento 1049/2001 ha sancito un diritto di accesso in termini analoghi. Questa scelta è stata poi confermata dall’art. 15 TFUE, ritenendosi che
quel diritto di accesso ampio fosse la migliore soluzione per compensare, in termini partecipativi e di verifica dei processi decisionali, il deficit di democraticità delle istituzioni europee.
A questi modelli, dunque, dovremmo guardare, se non altro per quelle categorie di dati personali la cui indiscriminata divulgazione in rete rischia di pregiudicare libertà e diritti individuali, senza neppure diminuire (anzi, paradossalmente, aumentando) il tasso di opacità dei processi decisionali.
Nel garantire la congruità di questo bilanciamento le Autorità hanno indubbiamente un ruolo centrale: quello, cioè, di assicurare la coerenza tra la previsione astratta (non indeterminata, ma necessariamente duttile) e la concretezza della sua attuazione, declinando di volta in volta i parametri fissati dal Parlamento secondo le caratteristiche del singolo caso. E’ una sfida importante, su cui si misurerà sempre di più la qualità della nostra democrazia e della nostra coscienza civile.

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