Disegno di legge: Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione

Camera dei deputati, Seduta n. 151, 24/03/2009

 

Signor Presidente, avvertiamo il peso e la responsabilità di questo voto e di questo giudizio per almeno tre ragioni.
In primo luogo, per il contesto politico, segnato da divisioni e contrasti che vengono da lontano.
In secondo, luogo, per la natura di questa legge, non solo di attuazione di una parte della Costituzione, che abbiamo scritto e difeso promuovendo e vincendo due referendum, ma anche di delega al Governo, a questo Governo, per la fase di attuazione, cioè la fase decisiva per il conseguimento degli obiettivi.
Infine, sentiamo il peso di questa decisione per il motivo, non banale, che un partito della maggioranza ha trasformato questa legge in una bandiera, di più, in una formula magica, capace di alimentare suggestioni e molte illusioni.
Non abbiamo fiducia in questo Governo, perché è federalista a parole e centralista nei fatti. Dodici mesi di Governo della destra confermano questo giudizio. Federalismo a parole, ma, nei fatti, tutto il potere, quello vero, concentrato a Pag. 98Roma nelle mani del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro dell’economia e delle finanze.
Questo Governo ha tagliato la leva fondamentale della fiscalità degli enti locali, l’ICI; ha pensato di usare i prefetti, quelli che il Ministro Maroni pensava di sopprimere, per controllare le banche; e ora, nel silenzio del partito del Ministro Maroni, pensa di commissariare le regioni e i comuni con un decreto-legge sull’edilizia spacciato per «piano casa». La Lega Nord continua a tacere sull’imbroglio del Patto di stabilità dei comuni, modificato di mattina con un accordo e tradito di sera (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
In questo quadro, si è svolto il confronto parlamentare sul federalismo fiscale. Sappiamo che esiste un sentiero stretto per esercitare il ruolo di opposizione che gli elettori ci hanno assegnato, senza rinunciare al compito irrinunciabile di difendere gli interessi generali del Paese, in modo particolare, quando sono in gioco le riforme generali dello Stato.
In questi giorni, abbiamo ripensato, più di una volta, alle parole del Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno e a quell’appello rivoltoci abbiamo pensato di ispirarci in questa circostanza.
Vorrei dire ai colleghi che la nostra bussola è stata la ricerca seria e ragionata di un filo conduttore coerente con le idee che guidano il disegno di riforma delle nostre istituzioni, da quella del Parlamento, alla forma di Governo, fino al cosiddetto codice delle autonomie, che crediamo debba essere inscindibile corollario del federalismo fiscale.
Vi chiediamo – lo abbiamo chiesto con un ordine del giorno approvato, ma lo chiediamo ancora – di iscrivere, da subito, queste riforme nell’agenda politica e parlamentare del Paese.
Immaginiamo questa legge come parte di una più generale riforma dello Stato, che abbia l’obiettivo di rendere più efficiente la pubblica amministrazione, di rendere più semplici e trasparenti le procedure e le burocrazie, di qualificare e controllare la spesa pubblica attraverso un maggiore controllo da parte dei cittadini.
L’idea centrale della proposta politica del Partito Democratico, di un partito riformista e nazionale, ruota sempre intorno all’obiettivo di allargare il diritto di cittadinanza di tutti gli italiani, qualunque sia la parte del Paese in cui essi vivono.
In fondo, sta tutta intorno a questa cifra l’ispirazione delle riforme non effimere degli ultimi venti anni, dal trasferimento di competenze alle regioni e alle autonomie locali, all’elezione diretta dei presidenti delle regioni, alle riforme Bassanini e al nuovo Titolo V della Costituzione. Stanno intorno a questa linea di demarcazione la disputa e i conflitti sulla nuova architettura istituzionale che hanno segnato negativamente la XIV legislatura, quella della devolution, della riforma bocciata dal referendum da 16 milioni di italiani.
Prendiamo atto che è ormai alle nostre spalle quell’idea divisiva dell’Italia che riconosceva in modo diverso per ognuna delle regioni italiane il diritto alla salute, quello all’istruzione e alla sicurezza, un’idea votata e difesa – consentitemi di ricordarlo – anche dal partito dell’Unione di Centro: ricordo ancora l’onorevole Casini pronunciarsi pubblicamente in favore del «sì» al referendum confermativo. In quell’occasione faceva parte del coro, onorevole Casini (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), però noi consideriamo che sia legittimo cambiare idea e pensiamo che questa scelta, nel caso dell’Unione di Centro, sia il frutto di una sofferta revisione politica e culturale e non di un mediocre calcolo di posizionamento elettorale.
Per questo siamo rispettosi e non polemici, ma penso che abbiamo il diritto di rivendicare da voi un supplemento di sobrietà. Anche oggi, forse, questa è mancata e verso il mio partito, in particolare, si deve il rispetto per chi è stato coerente e sa parlare la stessa lingua in Veneto e in Sicilia (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), e non ha bisogno di Pag. 99lasciapassare per andare al nord del Paese, per andare in Veneto, anche se non è nella giunta con il presidente Galan.
Oggi ci siamo lasciati alle spalle anche il testo proposto dal Governo al Senato, quell’impianto fondato sulla suggestione che le regioni ricche potessero trattenere sul proprio territorio tutta la ricchezza prodotta, a prescindere dalle funzioni svolte, senza alcuna cura per gli squilibri territoriali nell’accesso ai diritti sociali di una grande parte del Paese, in contrasto con il principio costituzionale della progressività delle imposte.
Il lavoro dei nostri deputati, che vorrei ringraziare uno per uno per lo straordinario lavoro svolto nelle Commissioni e in Aula in questa occasione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), ha profondamente modificato quel testo. Il 90 per cento dei cambiamenti effettuati sono frutto delle proposte emendative del Partito Democratico. Non ci sono più tante IRPEF quante sono le regioni, un’idea balzana capace di innestare una sorta di turismo fiscale nel nostro Paese alla ricerca della regione più conveniente.
Avremo un coordinamento dinamico – si chiama così – della finanza pubblica per far convergere tutti i territori italiani verso livelli uniformi sia dei costi, sia dei tassi di copertura e della qualità dei servizi, e il Parlamento dovrà stabilire con legge i livelli minimi delle prestazioni essenziali da garantire su tutto il territorio nazionale, con un passaggio governato dalla spesa storica ai costi standard.
Il meccanismo della perequazione è stato ribaltato: non saranno più le regioni ricche a conferire risorse a quelle povere, secondo una procedura propria della beneficenza, ma sarà lo Stato l’attore essenziale delle politiche perequative. I soldi per il riequilibrio del Mezzogiorno non entreranno in fondi indistinti e il Parlamento avrà un ruolo non marginale nella fase di attuazione.
Questa legge è davvero una cosa diversa da quella iniziale, ma certo non è la nostra legge. Ci siamo chiesti in questi giorni se sia possibile per una forza di opposizione concorrere al processo di riforme in presenza di un Governo verso il quale nutriamo una profonda, radicale e motivata sfiducia. Non nego che abbiano fondamento dubbi e inquietudini che ancora rimangono, ma penso che non possiamo rassegnare…
Penso che non possiamo rassegnarci all’idea che le riforme, in questo Paese, debbano essere il frutto esclusivo delle maggioranze e, come tali, destinate all’effimera durata di un ciclo di Governo, o peggio che le riforme possano e debbano sempre invocare governi di unità nazionale. Per questo, la nostra astensione segna il riconoscimento di un percorso virtuoso nel metodo e di un prodotto legislativo che non coincide per intero con la nostra iniziale proposta ma reca il segno indelebile delle nostre idee e della nostra visione di un’Italia che, riformando le istituzioni e accettando la sfida dell’efficienza, rinsalda su basi nuove l’unità nazionale. Ma la nostra astensione – sto per concludere – segna anche, tutte intere, le riserve per il compito affidato al Governo nella fase successiva. Non è la nostra, signor Presidente, una delega in bianco, ma una sfida democratica a fare presto e a corrispondere con rigore e con lealtà al credito che oggi il Parlamento fa nei confronti dell’Esecutivo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico – Congratulazioni).»

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