Diversità, unità e bisogno di chiarezza

 

Le diversità nell’Ulivo sono una ricchezza, ma se questa pluralità di voci nei momenti decisivi non trova il modo di diventare unità l’Ulivo è destinato a perdere. Da qui l’esigenza di ricondurre ad unum posizioni diverse attraverso lo strumento della sintesi e del compromesso, non cedendo alla facile scorciatoia della piazza e della politica dei “senza se e senza ma”.
Europa, del 27/02/2003

 

Un concerto di voci stonate e non di meno compiaciute accompagna sempre più frequentemente la conclusione dei “vertici” dell’Ulivo. E l’impatto acustico risulta tale da coprire, con sapiente regia mediatica, le vergogne del governo Berlusconi. L’Ulivo fa parlare di sé più per le sue divisioni ostentate che per il suo profilo di alternativa di governo. L’aspetto paradossale della situazione sta nell’illusione che il rimedio all’attuale condizione si trovi in un allargamento della coalizione a Rifondazione comunista e a quant’altri oggi non abbiano ospitalità nel recinto.
E non è solo sui problemi della crisi internazionale che l’Ulivo si mostra diviso. Esiste una zona franca di materie (dalla riforma del sistema previdenziale al sistema elettorale e alla forma di governo) nel merito delle quali non osiamo indicare una tesi di coalizione. Esistono modi profondamente diversi di stare nel centrosinistra. E la linea di faglia che separa il campo dei riformisti da quello dei massimalisti – se vogliamo restare all’interno di questi definizioni un po’ datate – non è un’invenzione dei nostri avversari.
Tante volte abbiamo ripetuto che le diversità nell’Ulivo sono una ricchezza. Che la differenza tra il nostro schieramento e quello che oggi è maggioranza sta proprio in questa pluralità che non può semplificarsi per imposizione padronale. È così. Ma forse è arrivato il momento di riconoscere un’altra verità, egualmente importante: se questa pluralità nei momenti decisivi non trova il modo di diventare unità l’Ulivo è destinato a perdere. Le diversità che consideriamo una risorsa potrebbero diventare una malattia mortale, capace di soffocarci nell’impotenza. Siamo, del resto, continuamente sollecitati a questo sforzo di sintesi. Ce lo chiede la gente. Lo pretendono quei cittadini che vorrebbero vedere già in cantiere una nuova, credibile alleanza di governo, alternativa davvero a questo disastroso centrodestra. Invece succede che anche quella domanda che viene dal basso venga inseguita, catturata, imprigionata nelle piccole tattiche di bottega. Riflessi condizionati da scorie indigerite di vecchie ideologie.
Guardo al grande tema della pace e della guerra, con il rispetto che si deve a tutte le posizioni. Ma, dentro l’unità di fondo nel giudizio di ripulsa della guerra preventiva voluta dal governo USA, dentro la condivisa mobilitazione per contrastare un drammatico scenario di guerra, emergono differenze inconciliabili. Come l’idea cofferatiana “senza se e senza ma”. Perché la politica ha a che fare con molti se e molti ma. Perché le testimonianze estreme e nobilissime di chi crede nel pacifismo assoluto resterebbero appunto solo testimonianze se la politica non si sporcasse le mani con quei se, con quei ma. Se l’Onu dice sì o dice no è la stessa cosa? È ininfluente lavorare per l’una o l’altra soluzione? E come si fa a rendere più forte la scelta della pace nelle istituzioni, nei luoghi delle decisioni, nei palazzi del potere se la politica non assume fino in fondo il suo faticoso dovere?
Invece, anche su un tema tanto delicato e complesso, assistiamo a divisioni manichee. Da una parte l’approccio massimalista di chi sembra avere la pretesa di subordinare la fiducia nei confronti dell’Onu, della Nato, della Ue, alla prevalenza delle proprie ragioni, con l’implicita precarizzazione di qualunque organismo di governo internazionale. È l’idea integralista e totalitaria che fa coincidere la Regola con la parte, considerandola quasi una proiezione di sé. Dall’altra l’insofferenza di quanti scambiano la pari dignità tra le componenti con la rimozione delle differenze di rappresentanza – e come spesso avviene – con un diritto di veto. Una situazione che ancora una volta rischia di generare paralisi. Mi domando se siamo consapevoli di dove può condurci tale impasse. L’unità non è un talismano. Ma l’indisponibilità alla sintesi tra posizioni diverse diventa un tarlo dissolutivo.
Forse non abbiamo ancora metabolizzato fino in fondo il bipolarismo. Eppure dobbiamo convincerci che in un sistema come il nostro l’idea stessa di coalizione si fonda su un presupposto: la riducibilità ad unum di posizioni diverse. Frutto della consapevolezza che un programma di governo che nasca da apporti diversi non potrà mai corrispondere pienamente ai desideri o all’identità di una delle parti costitutive dell’alleanza, ma sarà comunque il frutto di una sintesi. Di un compromesso. Ma alla fine di questo percorso la voce deve diventare una. Se ci illudessimo di poter preservare una configurazione “polifonica”, forse potremmo vincere le elezioni. Ma non potremmo certo vincere le sfide del governo.
A fronte di questa via maestra, sta la scorciatoia della piazza. È una tentazione ricorrente: il desiderio di assecondare il sentimento popolare fa parte del codice genetico di ogni democratico. Ma il compito dei governi e delle rappresentanze politiche è altro. Non può fare concessioni alla demagogia, al populismo: esperienze storicamente della destra ma anche di alcune forme di governo centroamericano cui sembra qualche volta ispirarsi anche il mio amico Diliberto.
L’Ulivo ora è ad un bivio. L’ennesimo. Parliamo di nuova fase? Bene. Ma prendiamo atto che l’infelice compromesso sul regolamento dell’assemblea dei gruppi parlamentari ha rapidamente prodotto un esasperato ricorso alla differenziazione interna, frutto di quella rincorsa delirante alla visibilità che ha già prodotto tanto veleno nel centrosinistra. E la scadenza elettorale del 2004, con il meccanismo elettorale in vigore per le europee, può moltiplicare questo effetto rendendolo devastante.
Siamo ancora in tempo per correggere la rotta. Ma occorre riflettere sull’urgenza di affrontare con franchezza questi temi, per assumere decisioni tanto più utili quanto più lontane dalla decisiva scadenza del 2006.

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