Crisi della politica e riforma delle istituzioni

Relazione svolta a Nuoro nel febbraio del 1993

 

I due temi sono pressoché inscindibili, per cui occorre analizzarli simultaneamente.
Il bisogno di riforme cresce quando è in crisi il sistema politico. Quello italiano, che ha caratterizzato la storia del nostro paese dal dopoguerra ad oggi, è entrato nella sua fase conclusiva di dissolvenza. Il nuovo è all’orizzonte ed affonda le radici della sua identità nelle ragioni di questa crisi, ma il clima nel quale sta maturando è quello, in larga misura più emozionale che speculativo, contrassegnato dall’indignazione suscitata dalle inchieste di tangentopoli.
Come tutti sappiamo, l’emozione e l’istinto reattivo eccitano prevalentemente – se non esclusivamente – le posizioni radicali, per cui occorre un supplemento di ragionamento che serva a com¬prendere l’articolazione dei processi di trasformazione degli aspetti strutturali della società, di quegli aspetti cioè meno evidenti ma più durevoli della breve o lunga stagione di successo di questa o quella classe dirigente.
Dovremmo cercare di comprendere come possa essersi verificata una così marcata divaricazione tra la comune sensibilità della gente e il sistema della rappresentanza democratica nel Paese.
Gli ultimi dieci anni sono stati contraddistinti da profondi cambiamenti, rispetto ai quali la comune percezione ed interpretazione storica si è rivelata spesso inadeguata quando non irrimediabilmente superata.
Proviamo ad elencare i nomi delle novità e dei mali di questo scorcio di fine secolo: la società post-industriale e dell’informazione; la globalizzazione dell’economia; l’intelligenza come risorsa rinnovabile e mobile; la grande concentrazione di ricchezze economiche e di informazioni; l’ingresso di nuovi soggetti nell’economia mondiale fino a poco tempo fa annoverati nella triste categoria del terzo mondo; la vasta immigrazione in Europa; la suddivisione internazionale delle produzioni; il breve termine come orizzonte (non solo nella progressione economica nazionale ed internazionale, ma individuale); la crisi degli Stati e la proliferazione delle periferie etniche; la frammentazione degli interessi; l’invecchiamento della popolazione dei paesi industrializzati; la caduta del muro di Berlino; la società complessa con i suoi nuovi miti; la cultura del successo, del consumo; la civiltà dei diritti; l’elogio della competizione come fine; il feticcio del mercato, la moltiplicazione dei poteri; il processo di differenziazione infinita e di infinita articolazione di tutte le attività sociali.
Dall’economia alla scienza, alla cultura, tutte le attività si costituiscono in sfere separate e autonome, che cercano di trovare in se stesse le ragioni della propria disciplina e della propria regolazione. La nostra sembrerebbe la società nella quale, secondo Darerìdorf, “la gente ha sempre meno bisogno della politica”.
In realtà l’utopia di una scissione virtuosa tra quelli che potremmo chiamare i soggetti sociali intermedi resta pur sempre un’utopia, analoga alla società senza Stato vagheggiata da Marx.
I sistemi autonomi e separati non riescono infatti a governare le interdipendenze, a selezionare le compatibilità reciproche, né possono prescindere dalla mutevolezza del con testo ambientale così come dalla instabilità delle risorse interne ai singoli sottosistemi, le quali debilitano, quando non impediscono, l’autonomia agognata.
I partiti tradizionali non hanno seguito il passo di questa evoluzione del costume e della cultura della società complessa. La strutturazione culturale e la regola convenzionale alle quali si sono saldati sono state ancora quelle originarie dei partiti storici nati dalle fratture sociali dell’800 e in particolare da quelle tra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori, tra Chiesa e Stato, tra centro e periferia.
Tutti i partiti – da quelli socialisti, a quelli cristiani a quelli nazionalisti, sono ancora espressione e – insieme – strumenti di gestione di quelle fratture, orientati alla loro progressiva ricomposizione.
Oggi, però, nessuna di queste fratture – ancorché esistenti – conserva il peso di una ragione primaria di conflitto politico. Cessate le distinzioni ideologiche, si è verificata una progressiva omologazione tra i contendenti.
Venuto meno il sentimento di un’appartenenza idealmente opposta, ha prevalso la gestione, il pragmatismo e, come abbiamo visto, l’illegalità.
Paradossalmente in Italia il massimo di moralità pubblica, di passione civile e di impegno ha coinciso con il tempo dei partiti ideologici. L’incapacità di rinnovare l’ispirazione ideale originaria ha portato i partiti a cedere alla tentazione di divenire partiti piglio-tutto, voraci di ogni segmento del “mercato” politico, di qualsivoglia rivendicazione presente nella domanda sociale e particolarmente di quelle considerate prevalenti sul momento, le cosiddette mode culturali.
Inevitabilmente un tale prevalere, nella vita delle istituzioni, della gestione per fini patrimoniali, propagandistici ed elettorali, sull’a¬zione legislativa e di governo in vista degli interessi generali ha dovuto sottrarre consistenza alle vere ragioni dell’agire politico per affidare il massimo di significato all’immagine, all’adesione quasi pubblicitaria al paradigma dei nuovi miti. Sono a tutti noti i costi di questo inserimento dei gruppi politici nello star-system; la consistenza del potere veniva ostentata per solleticare il consenso, che poi veniva confermato dalla partecipazione dei nuovi e vecchi militanti alla spartizione delle risorse variamente raccolte.
La corrente era il soggetto interno ai partiti che attuava e rappresentava questa degenerazione della politica. Luogo esclusivo delle discussioni pertinenti all’attualità – quelle ufficiali di partito erano una concessione al rito dell’ufficialità – funzionale ad una leadership che dispensava promozioni ed arretramenti, rappresentava praticamente l’unico percorso per conseguire la dirigenza, ma anche la sede dove molti hanno imparato il professionismo della politica, la militanza intesa come scambio, la carriera alternativa agli insuccessi professionali.
La società italiana si è ribellata all’oligarchia delle correnti.
Prima attraverso segmenti di società cambiata, autonomi rispetto al potere politico – si pensi al volontariato – poi con una coscienza progressivamente organizzata dell’inadeguatezza culturale e morale della classe dirigente a svolgere ulteriormente l’azione di governo.
Più i partiti italiani hanno continuato ad avere la pretesa di assolvere un ruolo dominante, sovraordianato, onnipotente e legalmente irresponsabile, più la natura della rivolta della società è divenuta da culturale che era, politica, I referendum sono nati così, come strumenti incontrollabili dai partiti per indurre mutamenti significativi e radicali nel sistema.
Intorno ad alcuni obiettivi dell’azione referendaria non può che esprimersi un forte consenso: la stabilità dei governi, la riduzione dei collegi per facilitare un maggiore controllo sociale, l’eliminazione delle distorsioni connesse alla ricerca delle preferenze, I’identificabilità durante la competizione elettorale del premier e della coa¬lizione, l’individuazione di un limite alla rieleggibilità dei candidati. Tutti ne avvertiamo però anche i rischi (la personalizzazione riduce la partecipazione e aumenta le spese elettorali ecc.) ma oggi questa azione politica è indispensabile perché e l’unico strumento per mandare in pensione una generazione che si è identificata con la fase distorta dell’ultima stagione.
Potrà apparire – lo è – un processo sommario, ma occorre un rinnovamento vastissimo di classi dirigenti.
Non sarebbe però sufficiente cambiare uomini e leggi elettorali se non matura la convinzione generale che la politica non può essere cancellata o rimossa, ma occorre ridefinire la giusta dimensione per una sua relazione virtuosa con la società complessa.
I partiti devono ritrovare il primato dell’interesse generale, il gusto per il pluralismo delle opzioni e delle espressioni.
L’auspicio è insomma per un partito che non pretenda di essere dominante ed esclusivo nella interpretazione della domanda sociale, ma che si inserisca in un rapporto dialogico, di collaborazione con gli altri soggetti, organi sociali, movimenti civili, gruppi e associazioni, valorizzandone fino in fondo la funzione politica.
Attraverso questo percorso si giunge alla ricomposizione delle scelte individuali, degli interessi, dei desideri e dei valori, in pro¬grammi e scelte di valenza generale, politica appunto.
Tutto ciò richiede uno sforzo corale della società civile e di quella politica in modo da ricomporre la frattura di cui abbiamo parlato in principio.
La nostra crisi troverà dunque l’approdo persuasivo di una nuova moralità solo in un paragone teso fra regole e comportamenti, che dovrà essere il dato fondante di una nuova democrazia. Ma una pubblica moralità si guadagnerà se ognuno cercherà di paragonare i suoi personali comportamenti con la regola, ossia se anche la società civile saprà vincere la tentazione di considerare conclusiva della sua “socialità” l’esclamazione del dissenso, l’occupazione della piazza con slogans e striscioni, stemperando in un velo di ipocrisia molte prediche nobili.
Non mi sembra eccessivo sottolineare un prevalere, nel presente della nostra cultura politica, dell’eredità guicciardiniana. E mi ritorna la nota raccomandazione dello storico fiorentino: “Pregate Dio di trovarvi dalla parte dove si vince”. Invito assolutamente superfluo, poiché c’è sempre una grande ressa da quella parte.
Io oggi mi domando: se sono tutti impegnati a “trovarsi” là dove si vince, chi si impegnerà a vincere?

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