Le mani sporche di don Milani

21 aprile 2007

È in corso l’ultimo congresso della Margherita. E a Firenze in queste ore si conclude l’ultimo congresso dei DS.

Confesso di provare sentimenti insieme di emozione e di sollievo, emozione per i giorni che abbiamo davanti, sollievo per la qualità di questo congresso.

Nelle ultime settimane, in molte occasioni, abbiamo offerto l’idea di una divisione e di una contrapposizione che è apparsa sproporzionata rispetto alla posta e soprattutto alla prospettiva politica che abbiamo aperto.

È vero e dobbiamo riconoscere che abbiamo più di una volta rischiato di andare oltre la misura. Per questo dovremmo tutti essere grati a quanti hanno favorito un congresso unitario nella proposta politica e nell’indica­ zione della dirigenza.

È, questa, una grande ricchezza per tutti noi nel viaggio difficile e insieme affascinante che ci sta davanti.

Penso che l’unità non sia una scorciatoia comoda e indolore ma il prodotto sofferto di un intenso lavoro politico. Non per paura ma per generosità, abbiamo risposto positivamente a quanti ci chiedevano di mettere in secondo piano le nostre ambizioni e le nostre consuetudini per favorire uno straordinario obiettivo politico.

La mozione unitaria non è la cifra scontata di un percorso obbligato: è la conquista di un confronto e di una adesione che non cancella tutte le incertezze, le resistenze, le inerzie che si intrecciano variamente con le nostre storie personali.

Ha prevalso un generale atto di fiducia nei confronti di un progetto che insieme abbiamo iniziato a coltivare oltre dodici anni fa e ora ci troviamo nel centro di uno snodo straordinariamente importante per la nostra vita collettiva di partito, ma anche per quella personale di ognuno di noi.

Abbiamo alle spalle un’esperienza complessa, ricca di molti successi, nei quali abbiamo esplorato forme originali di integrazione e contaminazione culturale e politica, di innovazione, di elaborazione, di lavoro prima all’opposizione poi al governo.

Ma nella nostra esperienza più recente ci sono anche le ombre che non possiamo tacere. Penso all’esperienza di un tesseramento che abbiamo voluto molto libero per un di più di apertura e di fiducia e che in alcuni casi è diventato strumento di cattiva politica.

È stata una brutta pagina che ha fatto male non solo a noi ma a tutta la politica. Dovremo ricordare bene questa esperienza quando parleremo di forma partito, per non fare un partito di tessere, per cambiare davvero, per costruire una casa veramente accogliente, aperta, democratica. A partire dalla fase costituente.

Penso che sia necessario aprire porte e finestre perché il progetto del partito nuovo si rivolge all’intera società italiana. E non mi convince l’idea, tutta difensiva, che il nuovo partito debba nascere per fusione di quelli esistenti. Non tanto e non solo perché, come è già evidente, il saldo sarebbe negativo, ma soprattutto perché negheremmo la premessa politica da cui tutto ha preso l’avvio. E cioè, l’idea che i nostri partiti non sono da soli sufficienti a rappresentare tutta la ricchezza e la novità del riformismo italiano.

Se questo è vero -­ e penso che lo sia ­- dobbiamo scommettere sulla volontà di una parte importante di nuove adesioni, sulla capacità di attrarre molti italiani finora esterni e indifferenti ai nostri partiti. E dobbiamo sapere che il nuovo entra in politica solo dalla porta principale.

Anche per questo, in molti abbiamo pensato a una giornata elettorale nella quale chiamare al voto dei delegati per l’Assemblea costituente tutti gli italiani che si riconoscono nel nostro progetto, elettori ed eleggibili, senza alcun filtro che non sia quello del consenso democratico. Solo con una grande apertura sarà possibile far passare l’idea di un grande partito democratico, popolare, capace di raccogliere sotto un unico progetto le migliori tradizioni del riformismo italiano.

Solo così sarà possibile dare vita a una nuova organizzazione della politica che superi le angustie della forma partito novecentesca per sperimentare un modello originale centrato sui nuovi ritmi della vita e del lavoro, sugli interessi, sulla cultura, sulle espressioni della socialità del nostro tempo. La vera scommessa è quella di fare un partito che abbia come missione quella di modernizzare l’Italia e metterla in sintonia con le grandi democrazie del mondo.

Per questo io non penso al PD come l’evoluzione di due partiti ma come la nascita di una nuova storia, in termini di chiara ed esplicita discontinuità.

E tuttavia, io non mi sento estraneo all’inquietudine che ha accompagnato da tempo il nostro confronto e le nostre discussioni. E comprendo quanti avvertono il disagio di entrare in un campo aperto e inesplorato, sentono il bisogno di segnalare con passione il proprio radicamento identitario e manifestano con forza il bisogno di non disperdere il patrimonio di cultura politica di cui ognuno di noi è in qualche modo portatore.

Noi sappiamo che questo è un grande problema, sappiamo che questo problema ha in sé un potenziale rischio di trasformarsi in un incontenibile fattore divisivo. Sarebbe un errore sottovalutarlo. E tuttavia, nella fase straordinaria, difficile ma a un tempo esaltante che ci attende, se vorremo situare il progetto del PD dopo e oltre le esperienze politiche del Novecento dovremo sfuggire la tentazione di pensare alle nostre storie, alle nostre culture, alle nostre tradizioni come un terreno definito da recinti alti e invalicabili.

In concreto, nella realtà che abbiamo vissuto, le culture sono state il sovrapporsi e intrecciarsi di esperienze, idee, sogni, convenzioni, scienze che attraversano la storia, non linee rette che segnano confini, frontiere invalicabili.

L’identità non è un freddo catalogo di valori, non è un corpo pietrificato, ma è un’anima che vive, si contamina, evolve. Ogni identità, anche la nostra identità personale, è fatta di memorie e di rimozioni, ma diventa soggetto riconoscibile e vitale solo quando si manifesta nel divenire della storia, quando ha la forza e la disponibilità di mettersi in discussione. Per queste ragioni non abbiamo mai pensato di rinnegare la storia di cui siamo figli ma piuttosto coltiviamo l’ambizione di scrivere insieme una storia nuova, in cui conti di più, assai più, la destinazione che insieme abbiamo scelto rispetto alle provenienze.

Perché la politica per essere vera, per essere capace di muovere le passioni, per essere fertile, deve essere declinata al futuro. La politica è progetto e noi non potremmo mai progettare cose nuove se ci rifiutassimo di guardare in avanti.

Politica è ricerca del consenso: e questo non potremmo guadagnarlo esibendo medaglie e lustrini di un glorioso passato ma solo per il carattere persuasivo del disegno che sapremo offrire per il futuro.

Sono tutte condizioni che richiedono da parte nostra un’esplicita disponibilità a metterci in discussione, a negare prima di tutto a noi stessi qualunque rendita di posizione, qualunque esito banale e scontato.

Per questo non vedo un grande avvenire nella politica italiana per quanti sembrano vivere in ostaggio delle proprie biografie, aggrappati a simboli e bandiere sbiadite, ossessionati dal peso di nomi ai quali non corrisponde più un significato certo, univocamente riconosciuto. Ne abbiamo sentito in queste settimane più di uno. E tuttavia non dovremo rispondere alle inutili aggettivazioni polemiche di alleati e avversari che nei giorni scorsi, dai loro congressi, hanno tentato un’irridente parodia del nostro progetto.

Dovremo portare le nostre ragioni a un confronto serio e responsabile. Spetta a noi, ai nostri congressi, la responsabilità di indicare una chiara direzione di senso che venga avvertita senza troppi filtri, che entri nella coscienza popolare degli italiani come visione generale della società, come progetto di cambiamento dell’Italia che sia, insieme, risposta persuasiva alla crisi della democrazia.

La crisi delle democrazie è l’orizzonte nel quale si pone la nostra sfida. E nasce dallo squilibrio crescente tra i poteri della politica, che vuol dire dei diritti dei popoli e delle persone, e quello straordinario degli altri poteri che l’estensione planetaria dell’economia e dell’informazione hanno messo in campo. E nel nostro paese questo squilibrio è più acuto perché la politica è spaventosamente frammentata e le istituzioni conservano integri meccanismi anacronistici che ne rallentano e spesso impediscono la capacità decidente.

È la crisi di un sistema calibrato sul bisogno di rappresentanza che non trova la strada per risolvere il problema del governo, della risposta puntuale, responsabile, efficiente alle sfide dell’economia, della ricerca scientifica, delle grandi migrazioni e dei grandi conflitti che formano l’agenda reale del nostro tempo. Per questo non servono governi di grossa coalizione, di salute pubblica né dobbiamo abbassare la guardia davanti alle sirene di quanti vorrebbero attenuare il nostro giovane bipolarismo, ma dobbiamo semmai insistere perché le riforme promuovano un bipolarismo maturo ed efficiente.

In questi mesi abbiamo lavorato molto, insieme ai dirigenti DS e ai tanti intellettuali che hanno accolto l’invito di Romano Prodi, per definire un Manifesto delle idee e dei valori capace di esprimere il profilo politico e ideale del partito nuovo: credo che sia giusto assumerlo come documento di riferimento per la fase costituente che si apre. Ma ora dobbiamo discuterlo diffusamente, nella società italiana, per condividerlo con tutti gli uomini e le donne che insieme a noi vogliono affrontare la sfida e il rischio della nuova fase politica.

Per parlare con tutti gli italiani delle nostre speranze
e delle nostre intenzioni per l’Italia. Un’Italia in cui sia bandita l’intolleranza e in cui nessuna maggioranza possa imporre con le leggi la propria cultura, la propria idea
del bene a chi non la condivide né possa decidere che un valore è l’unica cosa che può legittimare un diritto.

Un’Italia che pretenda sempre trasparenza nei rapporti tra poteri economici e politica. Un’Italia in cui la regola prevalga sempre sulla rendita. Un’Italia in cui sia premiato il merito, il talento, il rischio d’impresa: ma sappia a un tempo impedire il monopolio e il privilegio, riaprire la mobilità sociale, favorire l’inclusione.

Un paese che inauguri una nuova attenzione al rapporto uomo-­natura, per non subire più nell’inerzia dei comportamenti individuali e collettivi la drammatica emergenza del mutamento climatico del pianeta.

Un paese che riscopra il valore della famiglia come straordinario fattore di coesione sociale e insieme contrasti ogni forma di frammentazione e di precarietà.

Un paese in cui sia possibile allargare gli spazi di libertà nell’attività economica, in quella sociale, in quella politica, creando le condizioni per accrescere in questo modo giustizia e coesione attraverso un profondo rilancio e rinnovamento dei sistemi di sicurezza sociale e del mercato del lavoro.

Dovremo affrontare nei prossimi mesi più di una difficoltà. Dovremo risolvere con realismo e con onestà il problema della collocazione internazionale del nuovo partito.

Penso che ci sia stata su questo problema un’enfasi eccessiva. In realtà il peso dei partiti europei è assai modesto nella formazione delle decisioni politiche dell’Unione.

Queste passano piuttosto attraverso i governi, quindi dai leader, poi dai gruppi parlamentari, assai marginalmente attraverso i maggiori partiti europei. E meno che mai attraverso strumenti ormai fuori dal tempo come le internazionali.

Ma non dobbiamo sfuggire la questione.

Dagli amici DS ci viene spesso detto che, una volta superati i confini nazionali, occorrerà fare i conti con il PSE: sono d’accordo.

Ma occorrerà fare i conti con tutti i soggetti del campo progressista presenti in Europa e nel mondo. È una sfida che ci riguarda tutti, liberali e progressisti, cattolici democratici e ambientalisti. Partiamo dal primo passo: dalla disponibilità ad accettare che il PD non sarà un partito socialista ma un moderno partito di centrosinistra europeo, senza trattino.

Quella che non possiamo condividere è l’idea che il sistema politico in Europa sia riconducibile alle stesse “famiglie” che hanno organizzato la politica nel secolo scorso. Anche perché non corrispondono più a un profilo unitario: al loro interno vivono allo stesso tempo vecchi statalisti e socialisti liberali, convinti europeisti e decisi oppositori dell’Unione Europea.

La categoria del socialismo è spesso un collante nominale al quale non sempre corrisponde una politica comune. E sommessamente vorrei ricordare che al congresso del PSE, in Portogallo, i grandi leader europei, come Zapatero e Blair, non ci sono andati. E il Partito Popolare Europeo non vive meglio: da trent’anni la guida viene affidata a esponenti della Democrazia cristiana dei Paesi Bassi. Vuol dire che c’è qualcosa che non quadra, che queste sono organizzazioni sopravvissute, politicamente fragili e fuori corso.

E allora il problema del Partito Democratico è quello di mettersi dentro la rete di cambiamento che avviene nel mondo. Perciò agli amici dei DS che ci pongono la domanda «ma dove andremo», rispondiamo che andremo insieme in Europa a costruire un’organizzazione, insieme ai socialisti e a tutti i veri riformisti, una rete più larga, più efficiente, più aderente ai conflitti nuovi e alle nuove sfide con cui si misura la comunità internazionale nel nostro tempo.

Inizia una fase politica ricca di molte incognite, ma di assai più grandi opportunità.

Noi sappiamo di aver suscitato molte speranze, molte attese. E sappiamo che avremo critici esigenti e severi come avviene sempre quando la posta è alta. Ma sappiamo anche che la nostra generazione politica ha davanti la possibilità concreta, straordinaria e irripetibile di partecipare alla fondazione del più grande partito politico italiano, di spingere decisamente il nostro sistema politico dentro il XXI secolo, di modernizzare e rendere più fertile la nostra democrazia bipolare, di restituire l’onore alla politica.

Sarà un’impresa bella ed esaltante. Per questo mi piacerebbe che i tanti che hanno espresso dubbi e incertezze, che hanno lamentato errori e ritardi si sforzassero di pensare al nostro lavoro politico nel tempo che abbiamo davanti non come testimonianza presuntuosa ma piuttosto come la scommessa di chi sa, ce lo ha insegnato don Lorenzo Milani, che con la politica ci si deve sporcare le mani, per tirarle fuori più pulite.

PRIVACY POLICY