A proposito di laicità

5 gennaio 2007

 

Il tema delle unioni di fatto e l’impegno per una legge in materia costituiscono un punto molto sensibile nell’agenda della coalizione di centrosinistra.

Esiste certamente il rischio di una lacerante contrapposizione tra forme diverse e speculari di integralismo e intolleranza, tra alfieri intransigenti di inconciliabili bandiere, gli uni e gli altri indifferenti alla prospettiva della mediazione politica, alla ricerca di soluzioni condivise.

Una rottura su questi temi potrebbe non essere circoscritta, potrebbe aprire una falla importante nel progetto politico su cui poggia il governo Prodi. Tuttavia è possibile uno scenario diverso. Potremmo sperimentare, con più decisione di quanto finora tentato, un confronto vero, fondato sulla capacità di ascolto reciproco, sulla consapevolezza di una responsabilità collettiva che prevale sulla difesa identitaria, che va oltre la fotografia delle differenze.

Un accordo su questi temi indurrebbe indiscutibilmente un clima di maggiore coesione e di rinnovata solidarietà per la stagione di riforme che ci attende. Per conseguire un buon risultato sarà bene separare il campo della legislazione, terreno elettivo della mediazione politica, da quello dei giudizi di valore, per loro natura difficilmente trattabili.

Molti ritengono che le unioni di fatto rappresentino una deriva della società verso stili di vita in contrasto con il bisogno di stabilità e certezza, proprio di una collettività organizzata. Altri pensano che esse rappresentino un’occasione positiva di rinnovamento, di evoluzione della società in nome di una maggiore libertà degli individui.

Sono giudizi distanti, esprimono visioni della società diverse: idee del bene e del male difficilmente conciliabili. E queste distanze provocano un particolare allarme in una società, come quella italiana, così profondamente permeata dai valori cattolici.

In questi mesi, anche per effetto di una controversa e inadeguata risposta della politica agli interrogativi posti dal caso Welby, è sembrato rinascere in una vasta area della sinistra un anacronistico sentimento di ostilità nei confronti della Chiesa e del mondo cattolico. Sarebbe
davvero irresponsabile chi sottovalutasse il peso della presenza cattolica nel nostro paese e ne ignorasse il ruolo straordinario come fattore di coesione nazionale, evocando una frattura di cui non abbiamo davvero bisogno. Così come non può essere ignorato l’indissolubile nesso con cui, nella storia repubblicana, si sono intrecciate cultura cattolica e crescita della democrazia.

Per questo occorre, da parte di tutti, mettere in campo un supplemento di prudenza e di rispetto, rifuggendo ogni tentazione di attribuire alle leggi una valenza di tipo etico. Nelle democrazie liberali non è contemplata l’imposizione della propria idea del bene a quanti non la condividono, quando anche questi fossero una esigua minoranza. Se troveremo ragionevole questa premessa non sarà difficile discutere del merito.

Penso che la famiglia fondata sul matrimonio, su un rapporto stabile e duraturo tra uomo e donna, aperto alla fecondità, costituisca l’architrave della società italiana non solo per la prescrizione costituzionale ma perché corrisponde al sentimento largamente maggioritario della nostra comunità nazionale.

La convivenza secondo modalità diverse dal matrimonio è tuttavia una condizione di fatto che pur essendo propria di una minoranza di cittadini, non può essere ignorata dall’ordinamento di uno Stato democratico. Le leggi non sono manifesti culturali e ancor meno codici di norme discendenti dalla fede religiosa.

Il programma di governo ci impegna a definire norme capaci di riconoscere i diritti delle persone conviventi senza alcuna forma di discriminazione. Dovremo fare tutti uno sforzo per codificare con rigore la materia coniugando obblighi, responsabilità, vincoli e opportunità, allargando la sfera delle libertà e delle garanzie, esaltando la funzione inclusiva delle istituzioni.

Questo non significa equiparare matrimonio e unione di fatto, conferire una dignità, peraltro non richiesta, a un matrimonio di rango inferiore ma piuttosto riconoscere diritti e doveri a quanti oggi non ne hanno.

Non condivido le preoccupazioni di quanti temono che una norma sulle unioni civili possa incoraggiare comportamenti disgreganti della nostra società e intaccare la qualità dell’istituto del matrimonio e della famiglia. Avremmo un’idea davvero mediocre del matrimonio, particolarmente noi cattolici, se pensassimo che il suo fondamento risieda nel desiderio di beneficiare di incentivi o acquisire diritti.

Non vorrei invece che un atteggiamento eccessivamente difensivo, centrato esclusivamente sulla dimensione economico­-giuridica del matrimonio, finisse con indebolirne nella percezione generale il profilo più importante, la sua essenza interiore, la rilevanza sociale come snodo cruciale tra persona e società.

L’attività di evangelizzazione e di promozione umana è certamente un impegno difficile ed esaltante, ma è cosa diversa e non inconciliabile da quella di fare buone leggi.

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