La rete, gli haters e i rischi per la libertà di espressione

(“Il Messaggero”, 15 settembre 2019)

La rete è stata ed è, indubbiamente, uno straordinario strumento di promozione della cultura, dell’informazione, del pluralismo, della libertà di espressione, persino di quei legami sociali che oggi ci sembrano sempre più fragili ed evanescenti nella vita “off-line”. Eppure, a fronte di questi meriti, il web ha anche sviluppato un “lato oscuro”, ospitando e amplificando – con la forza propria di un mezzo davvero “planetario” – espressioni e immagini diffamatorie, vessatorie, violente nel senso più lato del termine, spesso in danno di minoranze o dei soggetti più fragili.

Per contrastare l’hatespeech la Commissione europea ha promosso, dal 2016, un codice di condotta che ha imposto alle piattaforme specifici obblighi di collaborazione, tradotti poi nelle policy aziendali, tra l’altro, in un potere di rimozione di contenuti ritenuti illeciti. Potere esercitato ad esempio da Fb, rispetto ad alcuni profili riconducibili a Casapound e che però – inscritto tutto all’interno della logica “negoziale” del rispetto dei termini di servizio – ha un impatto rilevantissimo sui diritti fondamentali.

Il ruolo sociale delle piattaforme è tale che, oggi, ogni limitazione nel loro uso comprime inevitabilmente la libertà di espressione, con riflessi ulteriori quando oggetto di “censura” siano idee politiche; incidendo dunque su libertà che costituiscono la “pietra angolare” della democrazia.

Allora, è legittimo che un soggetto privato quale Fb limiti un diritto fondamentale, sulla base di valutazioni complesse quali quelle relative al carattere istigativo dei contenuti? Non si tratta, peraltro, di valutazioni delegabili, in maniera più o meno neutra, agli algoritmi. Se, infatti, la selezione algoritmica è tendenzialmente affidabile se riferibile a parametri oggettivi (quali ad esempio la porzione di “pelle” esposta ai fini della pedopornografia), più difficile ne appare l’estensione alla valutazione semantica dei contenuti, che implica un apprezzamento in certa misura discrezionale difficilmente delegabile alla macchina.

Benché sia apprezzabile il tentativo di ridurre il grado di violenza che caratterizza la rete non vi è, quindi, il rischio che le piattaforme digitali divengano gli arbitri della libertà di espressione, disponendo così, di fatto, del potere di selezione dei contenuti da diffondere?

Quello dell’hate speech non è, del resto, il solo campo in cui i gestori hanno assunto un ruolo arbitrale nella gestione delle modalità di esercizio dei diritti fondamentali, finendo con il concorrere con la potestà pubblica per antonomasia. Significativa in tal senso l’iniziativa che era stata annunciata da Google, volta a suggerire a chi apparisse a rischio di radicalizzazione, contenuti di segno opposto. Difficile immaginare un’attribuzione, a soggetti privati, di funzioni più tipicamente espressive dell’autorità pubblica quali quelle, appunto, “rieducative”. Ma altrettanto rilevante è la funzione di composizione di diritti fondamentali quali, in particolare, la libertà di espressione e il diritto all’oblio, o anche la tutela del minore rispetto al cyberbullismo.

In questi ultimi due casi, in particolare, norme e prassi hanno consentito di evitare, da un lato, l’esautorazione dell’autorità pubblica e, dall’altro, la delega all’algoritmo persino delle funzioni più marcatamente pubblicistiche, in un contesto in cui l’attribuzione, sempre più estesa, a soggetti privati, di funzioni decisorie in ordine a diritti e libertà rappresenta un’innovazione nella stessa geografia del potere. La responsabilizzazione dei gestori promossa ad esempio nel contrasto dell’hate speech, del terrorismo o a tutela del copyright è certamente positiva, in quanto minimizza il rischio di un uso illecito – in senso lato – della rete, in quella che è stata a ragione definita l’età del risentimento. ­È indispensabile, però, che la composizione, in ultima istanza, di diritti fondamentali quali dignità e libertà di espressione sia sempre affidata all’autorità pubblica, impedendo tanto derive in senso lato “censorie”, quanto il rischio che la rete, da spazio di promozione dei diritti di tutti, divenga il terreno su cui impunemente violarli.

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