Non Grillo, ma una riforma: eccola

L’Unità, 20 settembre 2007

 

Qualunquismo e antipolitica non allargano il diritto di cittadinanza, non sono una categoria virtuosa del sistema democratico.
Al contrario, la storia ci suggerisce che spesso costituiscono un formidabile alimento per movimenti apripista di svolte autoritarie e illiberali. E tuttavia sappiamo che qualunquismo e populismo sono l’equivalente di una febbre che non può essere contrastata, rompendo il termometro, come ha detto con efficace metafora Pierluigi Bersani.

A me pare che il tarlo del nostro sistema sia rappresentato dall’incapacità ossificata delle istituzioni a produrre decisioni, a interloquire con gli altri poteri in tempi e linguaggi adeguati, coerenti con un mondo che produce e regola i conflitti su scale planetaria. Il recente dibattito sulle riforme rischia di riproporre un’insopportabile deja vu. Al generale appello per riforme condivise è seguita una prima promettente convergenza su alcuni obiettivi importanti (fine del bicameralismo paritario, Senato delle autonomie, riduzione del numero dei parlamentari, contrasto alla frammentazione e ai costi della politica…). Ma poi, puntuale, è arrivata la polemica rottura nel nome di una divisione su temi tanto estranei alle Riforme, quanto pretestuosi (Rai o chissà cos’altro!).

Si riproporrà, come sempre, il dibattito sull’impraticabilità di riforme a “colpi di maggioranza” e sull’inaccettabile diritto di veto dell’opposizione.
Sembra proprio che il nostro bipolarismo sia segnato da un inossidabile principio di sfiducia reciproca e dal conseguente ineluttabile blocco di qualunque innovazione delle regole che governano la nostra democrazia.
Penso che non sia giusto rassegnarsi e che invece occorra mettere in campo un supplemento di iniziativa politica attraverso un più largo coinvolgimento dell’opinione pubblica sui contenuti e sugli effetti delle riforme possibili.
A partire da quelle che riguardano più da vicino il funzionamento della democrazia, la vita dei partiti, l’architettura delle istituzioni: ricercando un confronto fondato sulla conoscenza piuttosto che sulle emozioni.

In questo quadro si pongono quelle riforme dei regolamenti parlamentari e della legge sul finanziamento dei partiti che puntano a contrastare la frammentazione.
In questo quadro voglio sottolineare che la modifica dell’articolo 72 della Costituzione rappresenta uno snodo ineludibile per introdurre efficienza, modernizzazione e semplificazione nell’organizzazione del processo legislativo e del lavoro del Parlamento.

Spiego il senso di questa affermazione.
Da tempo le leggi hanno, necessariamente, un alto tasso di contenuto tecnico e di specializzazione settoriale che si traducono in testi complessi per i quali è impossibile immaginare una specifica competenza dei singoli parlamentari.
Nel primo anno di questa legislatura la Camera ha registrato 5 mila votazioni. Per 5 mila volte un’Assemblea di 630 persone ha deciso nel merito di una norma, di un emendamento, di un articolo.
Quasi mai i deputati – ma un discorso analogo si può fare per il Senato e per i Senatori – possiedono elementi sufficienti per esprimere un giudizio e si regolano sull’orientamento che una minoranza di “settoristi” dà ai vari gruppi.
La questione è regolata dall’articolo 72 della Costituzione che affida all’intera Assemblea il compito di decidere, di norma, sull’intero corpo della legge, così come matura nel processo di formazione di un testo che le Commissioni hanno solo sommariamente istruito.

Questa procedura è figlia di un’epoca diversa, di una stagione in cui il legislatore fissava regole generali, disciplinava la gerarchia di poteri noti e riconducibili a categorie elementari. Un’altra stagione, un’altra società.
La mia idea è che si debba ribaltare lo schema dell’art. 72: affidando, di norma, alle Commissioni permanenti l’esame completo della legge, lasciando all’Assemblea solo il voto finale. Ci guadagnerebbe la qualità del lavoro parlamentare perché nelle Commissioni sarebbe possibile impegnare le personalità più competenti nelle specifiche materie e l’Aula si pronuncerebbe su un testo già definito nella sua coerenza.

Sarebbe migliore il prodotto legislativo, sarebbe accresciuta la celerità del percorso e ne guadagnerebbe in efficienza il lavoro dell’Istituzione.
Naturalmente si potrebbe sempre, a determinate condizioni, e in determinate materie (leggi di modifica Costituzionale, leggi elettorali…), restituire all’Assemblea il compito di esaminare l’intero corpo di articoli ed emendamenti, ma sarebbe un’eccezione e non la regola.

E’ evidente che un tale sistema imporrebbe un vincolo di trasparenza, di obbligatorietà alla partecipazione dei deputati in Commissione così come oggi avviene per l’Aula.
Penso che una riforma così semplice ed insieme utile, potrebbe trovare un favore bipartistan se soltanto prevalesse un maturo sentimento di responsabilità istituzionale, quello spirito civico nazionale che ogni tanto avvertiamo come virtù tanto desueta quanto indispensabile.

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