Discorso al 2^ Congresso nazionale della Margherita

Rimini, 14 marzo 2004

 

Vorrei esprimere un apprezzamento e una preoccupazione.
Un apprezzamento per la relazione di Francesco Rutelli, per il profilo che ha voluto tracciare del nostro partito e per gli orizzonti indicati. Ma soprattutto un apprezzamento per la strada che, insieme, abbiamo percorso in questi due anni.
Non solo perché progredisce il disegno, l’idea fondativa di riaggregazione, ma perchè
la contaminazione delle culture non ha cancellato le radici ma ha generato una vita nuova. Non siamo più agli auspici: oggi la Margherita vive E non solo per la strutturazione organizzativa, che pure costituisce uno straordinario elemento di concretezza della nostra politica, ma – e va dato atto prima di tutto a Francesco Rutelli – perche la Margherita sta rimettendo in sintonia la sua agenda politica con quella del paese, avvicinandosi alle questioni che più interessano gli italiani.

Risparmio, pensioni, nuove povertà delle famiglie, giustizia, pace, sicurezza: su questi temi abbiamo trovato il linguaggio della concretezza.
Passando dalla comprensione dei bisogni alla proposta di soluzioni, di scelte, di offerta di governo.

E su questi temi abbiamo smesso di misurare le nostre scelte con il metro di provenienze diverse e diffidenti e abbiamo, naturalmente, con imprevedibile naturalezza, trovato una cifra della modernità che emerge nella bella relazione di Francesco, assai più ricca e matura di quanto non apparisse due anni fa.

Relazione, in cui si riconosce, mi sembra, l’intero congresso e che segnala più di qualunque cifra la natura di una leadership vera.
E così la Margherita non solo può diventare ma è già diventata il motore più efficiente della modernizzazione del riformismo italiano, innescando una spinta che coinvolge l’intero schieramento del centro sinistra italiano.
Io non trovo contraddittorio il cantiere del riformismo che il nostro partito alimenta, così come lo ha riassunto ieri Tiziano Treu, con la tenuta unitaria della lista Prodi.
E’ vero il contrario.
Sarebbe terribile se dovessimo immaginare l’unità dell’Ulivo come un sistema immobile di reciproche interdizioni, un’alleanza delle astensioni.
Sarebbe come perdere la tensione verso il futuro, dismettere ambizioni e progetti.
E invece oggi la Margherita, la Lista Prodi, il Centro Sinistra hanno una straordinaria opportunità.
Deve essere chiaro che non riusciremo a conquistare il consenso solo per il malgoverno della destra, per la certificazione del fallimento del governo Berlusconi.

Non riusciremo a conquistare gli elettori neppure per i nostri meriti passati, quelli dei governi dell’Ulivo, e neppure per i valori ai quali ci ispiriamo.
Tutto questo non basta se da essi non si trae l’idea di una prospettiva per il futuro.
Dobbiamo indicare nuovi traguardi, evocare aspettative, dare affidamento su un progetto persuasivo. La Margherita ha già aperto il cantiere.

E questo va bene.
Ma non tutto va bene.
E sarebbe sciocco se noi tacessimo delle questioni che nel nostro partito sono irrisolte.
Molte sono questioni organizzative.
E queste preoccupano meno se esiste – come esiste – una chiara volontà di rimuoverle.
Ma altre, più serie, riguardano i meccanismi della vita democratica, che noi viviamo con qualche contraddizione. Contraddizioni che non sono solo nostre.

Ma proprio perché non sono solo nostre dobbiamo rimuoverle con la severità e il rigore che sono propri di quanti hanno a cuore il futuro dell’Italia – come recita il nostro manifesto – che vorremmo intrecciare con i valori di Democrazia e Libertà.
Il bipolarismo, le nuove forme della politica, il sistema elettorale con la elezione diretta dei vertici di governo a partire dai comuni, hanno innescato un cambiamento sostanziale delle forme con cui si organizza il consenso e si esercitano i poteri della politica.
Nuovi comportamenti, nuove procedure sembrano regolare la politica, forse al di là di una consapevole scelta degli stessi attori.
Subiamo, un pò tutti, spinte e suggestioni piene di contraddizioni.
Oscilliamo tra il bisogno di corrispondere alla domanda di semplificazione, di ricomposizione e il desiderio di riaffermare continuamente i caratteri della nostra identità, del profilo originario della nostra ispirazione.
Oscilliamo tra la volontà di corrispondere alla domanda di efficienza della guida politica – dalle assemblee legislative al partito – e la domanda insoddisfatta e insieme esigente di partecipazione alle decisioni.
E oscilliamo tra le aperture alla ricchezza di talenti e di fermenti presenti nella società civile e la consapevolezza che la politica ha bisogno di professionalità non occasionali.

E ancora oscilliamo tra il desiderio di assecondare gli umori, i bisogni spesso proposti con approccio radicale dai movimenti, dalla gente – come si dice – e la cultura di governo di cui parlava ieri Mattarella, evocando De Gasperi, che impone il dovere etico della responsabilità.
Ma esiste un aspetto di contraddizione più acuta che ha trovato un’eco in più di un intervento di questo Congresso e che riguarda da un lato la democrazia interna e dall’altro la tentazione del partito personale.
E’ presente in larghi strati del partito un’insoddisfazione, che non ha niente a che fare con i possibili schieramenti interni, che da un lato si traduce in una contestazione sistematica della delega – per la verità in genere di quella data piuttosto che di quella ricevuta – e dall’altro nella difesa sindacale, per quote, delle posizioni incluse, a partire da quelle degli eletti fino a quella, patologica della vecchia provenienza.
Sono problemi veri, con cui bisogna fare i conti: si tratta di capire se sono causa o effetto di un meccanismo distorto.
Penso alla vita di coalizione così come si configura nel regime bipolare ancora prima del possibile partito coalizionale.
Una vita scandita da tempi di decisione e di comunicazione strettissimi.
Il vertice di partito deve condividere con i vertici della coalizione, spesso od oras, un giudizio o una scelta.
E la cessione di parziale sovranità che spesso invochiamo dal partito verso la coalizione si traduce, ineludibilmente, in una deformazione della piramide decisionale.

E gli organi collegiali, spesso, diventano solo un luogo di ratifica, di consenso a posteriori, obbligato; e spesso diventano il luogo della recriminazione e della insoddisfazione.
Ma, per converso, come per un cortocircuito, è crescente l’idea che sia irrinunciabile l’identificazione elettorale con la figura del leader, di partito, di coalizione.
E la promozione della sua immagine prende sempre più spesso il posto del dibattito sulle questioni politiche, sul merito delle scelte.
E il leader avverte la tentazione di cercare una quotidiana legittimazione nel rapporto diretto con gli elettori, tendenzialmente al di là e al di sopra di qualunque struttura intermedia. E per comunicare ha bisogno del megafono mediatico.
E il megafono della moderna piazza mediatica parla a tutti ma è accessibile a pochi.
E così si restringe la democrazia.
Per molto tempo abbiamo pensato che questa deriva fosse un appannaggio esclusivo di Silvio Berlusconi.
Ma questi fenomeni sono un rischio presente in tutte le moderne democrazie e non sono sicuro che il nostro partito, gli altri partiti dell’Ulivo, ne siano immuni.
Il culto della personalità, la deriva plebiscitaria e populista sono la negazione delle nostre radici, della cultura cattolica democratica e liberale. E tuttavia vorrei segnalare più di un indizio di sconfinamento in questo terreno, contaminato a carico di tentazioni.
Vorrei, sommessamente, richiamare l’attenzione su quanto avviene nelle regioni, al fiorire di liste civiche personali, al crescente diffondersi di un culto populista fondato sull’antipolitica non più circoscritto agli ambienti destra.
Vorrei segnalare, sommessamente, la tendenza di molti dirigenti a servirsi di questi fenomeni, talvolta ad incoraggiarli.
E vorrei dire che il populismo è capace di avvelenare i pozzi della politica e da quei pozzi, dopo, nessuno potrà più bere.
Se saremo consapevoli di questi rischi, se questa preoccupazione non sarà rimossa, sottostimata o peggio banalizzata, allora potremo sfuggire a questa tendenza.
E trovare l’antidoto, coltivare gli anticorpi.
A partire da una sana competizione interna, libera e pulita, senza favori e senza protezioni. Una competizione che non richiami le vecchie appartenenze, che non trovi un comodo rifugio nella sopravvivenza virtuale di storie concluse.

In questo senso vorrei auspicare, per concludere, che il patto politico e il corrispettivo organigramma, che legittimamente, è stato convenuto nelle scorse settimane debba concludere una fase.
E questo congresso debba aprirne una nuova.

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