introduzione: Resoconti 1996

Introduzione di Giuseppe Sangiorgi, Roma 5 dicembre 1996

 

“Dobbiamo riguadagnare la fiducia della gente…” Era l’ottobre del ’93 e con questo obiettivo Antonello Soro poneva la sua candidatura alla segreteria regionale del nascente Partito Popolare italiano voluto da Mino Martinazzoli. Il discorso che pronunciò allora all’assemblea costituente sarde del partito è uno degli ultimi interventi pubblicati nel “dialogo” precedente a questo, attraverso il quale Soro periodicamente – ormai da una decina d’anni – mantiene un suo personale rapporto con amici ed elettori. Siamo oggi al quinto di questi volumetti (il quarto risale al febbraio ’94), e l’autore ha voluto chiamarlo in modo asciutto e immediato “Resoconti”.
La fiducia della gente. Rispetto ad allora, a quell’ottobre ’93, quale percorso ha compiuto il Partito popolare per riguadagnare una tale fiducia? Perché tutto ruota intorno alla risposta a questa domanda, dopo i fatti, i traumi, le inquietudini degli ultimi anni.
L’accavallarsi degli avvenimenti è stato tale da rendere difficili la memoria stessa di quanto avvenuto: quanti governi, quante elezioni, quanti cambiamenti nella vita politica e civile del Paese. Tutta un’Italia che non c’è più e una nuova che è ancora alle prese col proprio inedito destino, con l’obiettivo di essere stabilmente in Europa, con quello di concludere la propria transizione politica e istituzionale, da ristabilire un ordine, di ritrovare una identità…
Vogliamo provare a ricordare? Dal ’93 a oggi ci sono stati quattro governi: quello Ciampi, quello Berlusconi, quello Dini, quello Prodi. Ci sono state due elezioni generali compiute con un sistema elettorale del tutto diverso dal passato. La prima volta ha vinto lo schieramento di centro destra, la seconda volta quello di centro sinistra. Dove aveva fallito la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, ha vinto invece l’Ulivo di Romano Prodi. In questi pochi anni sono scomparsi interi partiti, a cominciare dalla DC, sono scomparse intere classi dirigenti, e sono nati invece nuovi soggetti politici, nuovi protagonisti della scena, nuovi problemi, nuove speranze.
Dentro questa grande storia c’è stata quella del Partito popolare. La iniziale scissione del CCD di Pierferdinando Casini, quella successiva e più traumatica ancora del CDU di Rocco Bottiglione hanno dato subito la misura della durezza del cammino intrapreso, hanno rappresentato in un certo senso la controprova della autenticità di questo nuovo cammino dei popolari. La mediazione è l’arte della politica, si era detto per tanto tempo. La mediazione è invece una doverosa necessità della politica, si è capito poi. La storia del Partito popolare sta in questo “poi”. Fin dove è possibile si media. Poi, se non è possibile altro, si rompe e si va per la propria strada. Non si tiene più tutto e il contrario di tutto. Si sceglie e si è coerenti.
Naturalmente costa. Se dalla memoria di questi anni passiamo a una memoria storica di più lungo periodo, l’analogia che torna alla mente è quella con il Partito popolare degli anni venti. Anche a quell’epoca ci fu una frattura. Gli esponenti “moderati” del partito ruppero con Luigi Sturzo e dettero vita a una formazione che proclamò inizialmente la sua autonomia dalla destra, e invece venne presto assorbita e fagocitata dal fascismo. E’ un dato che nel nostro Paese, storicamente, il “moderatismo” cattolico, in sé del tutto legittimo come posizione culturale, sul piano politico sia destinato a diventare subordinato alla destra.
E molto diversa la realtà di oggi? Certo sono cambiati i tempi, sono diverse le circostanze storiche, non si in trave all’orizzonte il rischio di una svolta autoritaria nel Paese. Il contesto europeo nel quale, moneta unica a parte, siamo già inseriti rappresenta una ulteriore valvola di sicurezza rispetto ai rischi di una involuzione antidemocratica del nostro sistema. Resta però il problema di una rappresentanza politica dei valori e della ispirazione religiosa che sappia restare autonoma e originale; che sappia conservare il suo specifico e sappia tradurlo in orientamenti legislativi, sociali, culturali della vita del Paese. Questo è il compito dei cattolici impegnati nella politica. Sta a loro elaborare laidamente e organizzativamente le forme di questa presenza perché riesca a essere incidente; di più, sta a loro diventare il riferimento di una proposta che, ricca delle suggestioni della sua ispirazione, sia quella migliore sul piano civile e risulti perciò la più conveniente, la più utile per la comunità. E diventi così la proposta da scegliere.
Intorno a questa sfida è nato il Partito popolare il 18 gennaio 1994. Primo segretario è Martinazzoli, il quale si dimetti subito dopo il risultato delle elezioni del marzo di quell’anno. Subentra come reggente Rosa Russo Iervolino, fino al congresso dell’estate che vede prevalere la candidatura di Rocco Bottiglione su quella di Nicola Mancino. Non è questa la sede per una rivisitazione di quelle scelte, delle polemiche e dei contrasti che suscitarono, fino all’epilogo della rottura nel marzo ’95.
Col senno del poi la estraneità della cultura di Bottiglione rispetto a quella del Partito popolare è diventata un fatto indiscusso. Ma non era stato così al momento della elezione di Bottiglione a segretario, o non era stato così per tutti. Perciò è interessante la lettura proprio del primo degli scritti di Soro contenuti in questi “Resoconti”. E’ un articolo comparso sul “Popolo” durante il dibattito precongressuale e Soro prende le distanze da Bottiglione. Gli rimprovera la riduzione del problema dell’identità del partito a quello delle sue alleanze, paventa un possibile trasformismo, mette in guardia il futuro segretario dalla tentazione di una “svendita” del patrimonio ideale dei popolari. Aveva visto giusto.
Il 1995 è l’anno della rottura con Bottiglione, della elezione di Gerardo Bianco (prima in tre successivi consigli nazionali, poi al congresso), ed è l’anno di Romano Prodi, della scommessa dell’Ulivo, della fine del governo Berlusconi… Davvero l’accelerazione degli avvenimenti è stata senza precedenti, nel Paese come del resto in Sardegna, fino alla prova elettorale dell’aprile del ’96 con la vittoria dell’Ulivo.
Che cosa fa Antonello Soro in tutto questo contesto?
Dal ’94 è deputato nazionale, ed è vice presidente del gruppo dei popolari, prima con Nino Andreatta, poi con Sergio Mattarella. Ai suoi articoli di giornale, ai suoi interventi sulla Sardegna si aggiungono così le iniziative e i discorsi parlamentari, l’interesse e l’impegno sulle grandi questioni, da quella europea a quella del risanamento economico e finanziario del Paese, e sulle grandi emergenze, come il lavoro e i problemi del Meridione. Anche di tutto questo c’è il riscontro nella pagine di questa pubblicazione che raccolgono scritti e discorsi dalla primavera del ’94 al dicembre del ‘96
Naturalmente la Sardegna non scompare dall’orizzonte dei nuovi interessi di Soro. Se sul piano istituzionale ha ormai compiuto mezzo secolo lo statuto speciale, troppi problemi dell’Isola chiedono ancora risposte risolutive a una antica condizione di difficoltà economica e sociale. Soro, in questi “Resoconti”, ripercorre il cammino dell’autonomia regionale, lo collega alla più generale tendenza federalista oramai in atto nel Paese.
La cultura dell’autonomia è in qualche modo, per Soro, la sua cultura politica, quindi la sua visione delle comunità, delle istituzioni e del ruolo del partito nella società. Perciò le pagine dedicate a questi temi sono quelle in cui più ritroviamo il collegamento a tutta la tradizione storica dei cattolici impegnati nella vita pubblica. E’ quasi paradossale che sui grandi mezzi di comunicazione, in questi ultimi anni, certe nuove parole d’ordine sul federalismo siano state presentate addirittura come contrapposte alla cultura e alla sensibilità politica cattolica. La esasperazione del federalismo, la sua identificazione con separatismo sono contrarie a questa cultura e Soro, che ha combattuto una tale suggestione in Sardegna, non può farlo anche sul piano generale. Ma la ricerca della valorizzazione delle comunità locali, e della connessione tra queste e la comunità nazionale e quella internazionale, l’Europa soprattutto, sono un filone di impegno che anche nelle pagine che seguono caratterizza continuamente gli interventi di Soro nell’ambito più strettamente di partito e in quello parlamentare.
L’autonomia, le “aree deboli”, i soggetti istituzionali minori, i soggetti sociali minori, meno protetti, meno tutelati: sono questi i protagonisti maggiori dei “resoconti, quelli ai quali si dà più voce, ai quali si cerca di restituire quella dignità politica che il duro gioco degli interessi e dei poteri più forti tende inevitabilmente a emarginare. E’, se vogliamo, l’anima popolare della politica che viene fuori, quella che preferisce un altro lessico, fatto di solidarismo, di personalismo, agli schemi più convenzionali di un oggi esasperatamente presentato come scontro prevalente fra destra e sinistra, fra conservatori e progressisti. La lotta politica che culmina nella vittoria di una parte viene denunciata come la sconfitta della politica intesa invece come “amicizia”, come progressione comune, come affermazione dei diritti, e delle speranze, della intera comunità, non di un pezzo contro un altro.
Il senso di fondo dei “Resoconti” sta in questo, sta in questa passione, sta nel desiderio della politica come partecipazione, perché senza la partecipazione la vita democratica diventa esangue, si ripiega nello scontro per il potere. Al momento di mandare in stampa questa pubblicazione, Soro sta preparando un nuovo intervento: quello che terrà al congresso nazionale del Partito popolare previsto per il gennaio ’97. Peccato non poterlo inserire, perché il congresso sarà in qualche modo la chiusura di tutta una fase politica, e un momento di verifica proprio di quell’obiettivo, dei quell’esigenza posta ormai quasi quattro anni fa: “dobbiamo riguadagnare la fiducia della gente…”.
In politica, come nella vita, un risultato non è mai acquisito per sempre, guai anzi a rincorrere una simile illusione. Il Partito popolare in questi anni ha conosciuto una lunga fase di assestamento, una sorta di transizione analoga a quella che ha vissuto e ancora sta vivendo il Paese.
Non è ancora tempo di giudizi e di bilanci, dunque, ma di impegno di ricerca, di conclusione di un tragitto.
La sospensione del giudizio è necessariamente legata al tempo della transizione. Di Soro sappiamo però da quale parte sta. E’ un popolare della prima ora, e non è venuto meno alla coerenza, e in questa chiave va letta la sua difesa dell’Ulivo, come il suo lavoro parlamentare e politico per il rafforzamento di questa alleanza. Prima di essere un rappresentante del centro è un uomo di centro, per cultura, per temperamento, per senso dell’equilibrio. Lo strumento più importante di cui dispone un uomo sono le sue convinzioni. Soro ha nelle sue mani un buon strumento.

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